CAPITOLO TERZO
GIURIDIFICARE ED ESTERNALIZZARE LO SFRUTTAMENTO.
IL CASO DEI LAVORATORI IMMIGRATI NELLA
VITIVINICOLTURA SENESE
Federico Oliveri
Sommario
1. Forme emergenti di sfruttamento ai danni di braccianti immigrati regolari – 2. Giuridiicare lo sfruttamento: la condizione dei braccianti immigrati regolari tra legalità formale e abusi
sostanziali – 3. Esternalizzare lo sfruttamento: il ricorso agli appalti presso le aziende senza
terra – 4. Sanzioni e tutele contro lo sfruttamento emergente: tra norme non applicabili e
norme dificilmente applicabili – 5. Conclusioni
1. Forme emergenti di sfruttamento ai danni di braccianti immigrati
regolari
Nel territorio di Siena si registrano, da almeno quattro anni, casi di sfruttamento ai danni di operai agricoli di origine straniera, addetti a varie fasi
della coltivazione della vite e della produzione del vino nel Chianti e a Montalcino. Decine di immigrati regolarmente presenti in Italia con permessi di
soggiorno per lavoro stagionale o subordinato, per lo più provenienti dal
Kosovo, dalla Serbia, dall’Albania, dalla Romania e dalla Tunisia, beneiciari
di protezione internazionale originari dell’Afghanistan e del Kurdistan turco,
hanno segnalato alla Federazione Lavoratori Agroindustria (FLAI) della CGIL
gravi irregolarità retributive e contributive, orari e ritmi di lavoro eccessivi,
cattive condizioni abitative, pesanti forme di controllo e di ricatto, spinte ino
alle minacce e alla violenza isica. Per timore di perdere il lavoro o di subire
rappresaglie, nessuno di loro ha però dato seguito alle segnalazioni avviando
vertenze legali contro i propri sfruttatori.
La nozione di sfruttamento lavorativo è per sua natura controversa, in
quanto costituisce uno dei terreni principali di conlitto tra classi e gruppi
sociali legati da relazioni asimmetriche di potere. Di conseguenza, deinizioni teoriche e regolazioni normative di questa materia vanno lette alla luce
dei rapporti di forza e dei compromessi, storicamente mutevoli, tra le parti
in causa: «ci saranno sempre tante concezioni antagoniste di sfruttamento
quante saranno le teorie sugli obblighi che legano le persone in nome di un
giusto trattamento» (Arneson 1992, p. 350). In questa sede mi limito a individuare e applicare al caso di studio alcuni elementi che considero essenziali
per una teoria sociale dello sfruttamento che voglia essere suficientemente
complessa e realistica. Si tratta di una prospettiva propedeutica a una rilessione strettamente giuridica sul tema, in quanto si focalizza sull’analisi
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LEGGI, MIGRANTI E CAPORALI
dell’organizzazione economico-sociale del lavoro con cui il diritto interagisce. Partendo da un’impostazione neo-marxiana, suggerisco di non vedere lo
sfruttamento semplicemente come l’appropriazione di un plus-prodotto o di
un plus-lavoro, ma piuttosto come l’esercizio di un comando, diretto e indiretto, che grava sulla vita dei lavoratori al ine di ottenere un plus-prodotto
o un plus-lavoro (Belloiore 1996). Tale comando prescinde dal consenso
individuale dei lavoratori, ma produce comunque determinati effetti sulle
loro condizioni di esistenza e di lavoro che possono, a un certo punto, essere percepite e contestate come inaccettabili dai lavoratori stessi. Da questa prospettiva, per stabilire se un rapporto di lavoro sia caratterizzato da
sfruttamento, e in che grado, propongo di analizzare tre elementi e la loro
co-implicazione: i termini e i risultati dello scambio, concluso dai lavoratori
e dai datori di lavoro, tra tempo effettivamente lavorato e salario realmente
percepito; le condizioni ambientali e personali dei lavoratori che possono
rendere tale scambio non-libero di fatto, anche se formalmente consensuale;
gli effetti dannosi che ne risultano per l’integrità psicoisica dei lavoratori.
Scegliendo di affrontare un caso inora trascurato di lavoro sfruttato in
agricoltura, questa ricerca si pone un duplice obiettivo. Innanzitutto, intende
ricostruire i meccanismi di sfruttamento dei braccianti immigrati regolari nella vitivinicoltura senese, nel quadro di un crescente ricorso ad appalti assegnati a società contoterziste, che forniscono esclusivamente manodopera alle
aziende agricole per svolgere alcune fasi della produzione, dalla raccolta alla
gestione delle cantine. Più in generale, si propone di aggiornare, a partire
da questo caso, il quadro analitico e le strategie di prevenzione e contrasto
dello sfruttamento lavorativo dei migranti in agricoltura, rilettendo su come
adattare gli strumenti giuridici di repressione e tutela a situazioni analoghe
di braccianti immigrati regolari e regolarmente assunti.
Le informazioni che costituiscono la base empirica della ricerca sono tratte da una serie di interviste semi-strutturate condotte con quattro sindacalisti
della FLAI-CGIL di Siena tra giugno 2014 e settembre 20151, integrate da altre
dichiarazioni sindacali contenute nell’unico articolo di stampa reperibile sul
tema (Ciuti 2012). L’ipotesi teorica di fondo che guida l’analisi è che, a una mutata composizione dei lussi migratori verso l’Italia e della forza lavoro migrante in agricoltura – più che in passato costituita da comunitari, cittadini di paesi
terzi con regolare premesso di soggiorno per lavoro stagionale o per lavoro
subordinato licenziati in altri settori, richiedenti asilo e rifugiati – corrispondano nuove dinamiche e nuovi meccanismi di sfruttamento. In questo quadro, il
caso di Siena si caratterizza per due tendenze complementari: la giuridificazione del lavoro sfruttato, ossia la trasposizione dello sfruttamento all’interno
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La ricerca è stata realizzata nell’ambito del progetto Tutele legali dei lavoratori immigrati
oggetto di particolare sfruttamento: la Toscana come caso di studio, svolto per L’altro
diritto, con il sostegno di Open Society Foundations.
IL CASO DEI LAVORATORI IMMIGRATI NELLA VITIVINICOLTURA SENESE
di dispositivi giuridici che ne assicurano la regolarità formale, mantenendone
tuttavia intatta la sostanza in termini di ingiusto proitto e di violazioni dei
diritti dei lavoratori e della persona2; l’esternalizzazione delle responsabilità
dirette dello sfruttamento dalle aziende agricole committenti alle società appaltanti che lavorano in conto terzi e che gestiscono la manodopera, ossia un
tentativo di rimuovere le pratiche socialmente e legalmente controverse dai
soggetti centrali a quelli marginali e meno visibili della iliera produttiva.
Se, in termini di diritti e dignità dei lavoratori, le relazioni di lavoro restano segnate in modo inequivocabile da sfruttamento, le loro modalità non
risultano perseguibili con gli strumenti del diritto penale dell’immigrazione
(reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di assunzione di
manodopera irregolare) o con il reato penale di riduzione in schiavitù, né
con le disposizioni contro gli pseudo-appalti e il lavoro nero. Al tempo stesso, altre norme potenzialmente applicabili, da quelle contro il caporalato e la
tratta, a quelle in materia di differenze retributive e di responsabilità solidale
negli appalti, risultano di dificile attuazione pratica.
2. Giuridiicare lo sfruttamento: la condizione dei braccianti immigrati regolari tra legalità formale e abusi sostanziali
Dietro un’apparente legalità formale, le relazioni di lavoro sperimentate
nella vitivinicoltura senese da lavoratori e lavoratrici di origine straniera, titolari di regolare permesso di soggiorno, sono caratterizzate da vari abusi so-
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Impiego il termine ‘giuridiicazione’ in senso formale, senza riferimento a contenuti speciici, per descrivere l’uso del diritto positivo nella regolazione di un dato ambito sociale
e nella legalizzazione di pratiche diffuse. Il concetto di Verrechtlichung è stato introdotto
da Kirchheimer (1972) nel dibattito sul diritto del lavoro sotto la Repubblica di Weimar,
per criticare gli effetti di depotenziamento della lotta di classe derivanti dalla formalizzazione giuridica delle relazioni industriali. Dagli anni ‘70 in poi, nel clima di crescente
disaffezione verso lo Stato sociale keynesiano, il termine è stato impiegato soprattutto
per criticare gli effetti di una produzione normativa sovrabbondante e invasiva di sfere
sociali prima riservate agli accordi privati o alla regolazione informale (Teubner 1987).
Ho tentato di applicare la nozione di giuridiicazione ai fenomeni di nascondimento dello
sfruttamento lavorativo dietro norme che ne assicurino la regolarità formale, per sottolineare il capovolgimento vissuto nel frattempo dai nessi tra sistema economico, sistema
politico e diritto positivo. Nel caso in esame, invece di essere gli attori pubblici a regolare
un ambito prima afidato all’informalità, sono gli attori privati a usare strumentalmente
le norme vigenti in materia di rapporti di lavoro per conferire un’apparenza di legalità
al loro abuso contra legem della condizione di vulnerabilità dei lavoratori. Se nell’epoca dell’interventismo statale la giuridiicazione mirava a costituzionalizzare l’economia,
regolando, a tutela delle parti più deboli, una serie di rapporti sociali altrimenti abbandonati alla logica del mercato, nell’attuale regime neoliberista la giuridiicazione inisce
per sospendere, a vantaggio delle parti più forti, tale costituzionalizzazione, essendo ora
l’economia a fungere da parametro dell’azione di governo (Foucault 2005).
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LEGGI, MIGRANTI E CAPORALI
stanziali. È quanto emerge dalla ricostruzione dei meccanismi di sfruttamento denunciati al sindacato, meccanismi qui analizzati rispetto a tre elementi
che considero centrali nella deinizione del lavoro come lavoro sfruttato:
l’equità dello scambio tra tempo lavorato e salario reale percepito, la libertà
di tale scambio e l’integrità psicoisica del lavoratore.
Le modalità con cui il datore di lavoro può accrescere i proitti ai danni
del lavoratore, alterando ulteriormente a proprio vantaggio lo scambio tra
tempo lavorato e salario reale corrisposto, sono tradizionalmente tre: ridurre
la retribuzione oraria, allungare la durata della giornata lavorativa, accrescere
l’intensità e il ritmo di lavoro. Nei diversi casi di sfruttamento, varia il fatto
che tali modalità siano o meno compresenti, e soprattutto variano i meccanismi, più o meno espliciti e più o meno legali, con cui viene imposta una
distribuzione iniqua del reddito e dello sforzo lavorativo.
Rispetto alle modalità più dirette e brutali, diffuse in altri contesti, nel
caso di Siena sono stati registrati meccanismi soisticati di riduzione del reddito spettante al lavoratore, che rispettano almeno in apparenza le norme e
i contratti in materia di retribuzioni e di orario di lavoro, nonché lo stesso
contratto di lavoro sottoscritto dalle parti. Secondo uno degli osservatori privilegiati intervistati durante la ricerca, si ha a che fare con «una zona “grigia”
dificile da individuare. Sono situazioni in parte legalizzate, e che quindi
riescono a sfuggire ai controlli perché protette da questa facciata di legalità.
All’esterno sembra che tutto sia in regola, ma non sappiamo quali situazioni
si celino dietro. Alcuni lavoratori magari non si rendono nemmeno conto di
trovarsi in una situazione di sfruttamento»3.
In base ai racconti dei braccianti e dei sindacalisti, oltre all’allungamento
non pagato della giornata lavorativa anche ino a 12 ore e all’intensiicazione
dei ritmi di lavoro durante i picchi di attività, la strategia prevalente, con cui
si altera l’equità dello scambio tra tempo lavorato e salario, consiste nella
riduzione della retribuzione oraria reale. La FLAI-CGIL ha registrato in particolare tre meccanismi ricorrenti di decurtazione salariale, che, in alcuni casi,
si sono presentati simultaneamente. Il primo meccanismo prevede il calcolo
al ribasso del costo orario della forza lavoro rispetto a quanto stabilito dal
Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) degli operai agricoli, nonché
da quanto stabilito dal Contratto Provinciale di Lavoro (CPL) per gli operai
agricoli della Provincia di Siena3. Il secondo meccanismo consiste nell’in-
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In base alle indagini dell’ISFOL (2012), il fenomeno delle retribuzioni inferiori a quanto
stabilito nei contratti occupa il terzo posto tra le tipologie di irregolarità del settore agricolo: il 59,4% degli intervistati ritiene che riguardi oltre un quinto dei lavoratori. Si tratterebbe di un fattore decisamente primario al Sud, tale da interessare più di un lavoratore
su due secondo il 59,8% degli intervistati, e più di uno su cinque secondo l’82,5%, mentre
sarebbe meno diffuso al Centro-Nord dove interesserebbe soltanto il 20% dei lavoratori
secondo il 62% degli intervistati.
IL CASO DEI LAVORATORI IMMIGRATI NELLA VITIVINICOLTURA SENESE
serimento in busta paga di meno ore di quelle effettivamente prestate dal
lavoratore e il mancato riconoscimento di straordinari, festività, ecc. Il terzo
meccanismo prevede restituzioni forzate ed eccessive richieste ai lavoratori
quale corrispettivo del trasporto, dell’alloggio e del vitto fornito loro dai datori di lavoro.
Il calcolo al ribasso delle retribuzioni può avvenire in vari modi. In primo
luogo, attraverso l’applicazione di un contratto collettivo meno favorevole di
quello teoricamente applicabile. In particolare, varie società che operano in
conto terzi per le aziende vitivinicole senesi hanno issato la propria sede
in altre province, soprattutto Grosseto, per non applicare il CPL di Siena,
considerato tra i più vantaggiosi per i lavoratori agricoli, anche e soprattutto
per la parte economica: per la sola paga base, per esempio, si può arrivare
a uno scarto di circa 70 euro mensili. «Se l’azienda ha sede a Grosseto, e
porta 300 lavoratori ogni mattina per una settimana a Siena, quei 300 risultano lavorare a Grosseto, non a Siena» (Ciuti 2012). Le società in conto terzi
utilizzano a proprio vantaggio le lacune nell’esigibilità della contrattazione
collettiva: da un lato, infatti, l’articolo 1 del CPL di Siena afferma che esso si
applica a tutte le prestazioni lavorative svolte nella Provincia di Siena, prevedendo un obbligo generalizzato di applicazione; dall’altro lato, trattandosi
comunque nell’ordinamento vigente di un contratto tra privati, per le norme
vigenti sull’eficacia dei contratti collettivi di lavoro, esso si applica soltanto
ai soggetti che hanno irmato il contratto e non produce effetti sui soggetti
che operano a Siena, ma hanno sede in altre province4.
In secondo luogo, il calcolo al ribasso delle retribuzioni può avvenire attraverso un inquadramento professionale inferiore rispetto alle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore. «Pagano 6,5 euro l’ora, che magari è la paga
base per chi pulisce i piazzali, a uno che invece per le mansioni che svolge
avrebbe diritto a un compenso di 10 euro l’ora» (Ciuti 2012). La tendenza delle
società contoterziste sembra essere quella di inquadrare tutti i lavoratori come
addetti a mansioni generiche non richiedenti speciici requisiti professionali,
attestandosi così al livello più basso di retribuzione, a prescindere dalle mansioni effettivamente svolte nel contesto degli appalti. È evidente lo scarto dal
principio enunciato, tra l’altro, nel CCNL per gli operai agricoli, all’art. 32: «gli
operai devono essere adibiti alle mansioni relative al proilo professionale di
assunzione e retribuiti con il salario a essa corrispondente. (…) Nel caso…
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L’individuazione dell’ambito soggettivo di applicazione dei contratti collettivi di lavoro è
tema assai controverso in dottrina e in giurisprudenza. Considerato quale atto negoziale
di natura privatistica, esso va soggetto alle ordinarie regole di cui agli articoli 1321 e seguenti del Codice civile, e ha dunque eficacia vincolante nei confronti delle associazioni
dei lavoratori e dei datori di lavoro stipulanti, nonché di tutti quei soggetti (lavoratori e
datori di lavoro) aderenti alle associazioni stipulanti, in virtù della teoria della rappresentanza (Giugni 2010).
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LEGGI, MIGRANTI E CAPORALI
siano adibiti a mansioni di un proilo professionale con livello retributivo superiore, acquisiscono il diritto, per tutto il periodo in cui svolgono dette mansioni, al trattamento corrispondente all’attività svolta». L’inserimento in busta
paga e il relativo pagamento di meno ore di quelle effettivamente prestate dal
lavoratore, così come il mancato riconoscimento di straordinari, festività, ecc.
rientra tra le manipolazioni più frequenti5. Tale violazione non è facilmente
riscontrabile dalla lettura della busta paga, formalmente corretta, né risulta dal
contratto di lavoro. «Le società contoterziste assumono gli operai secondo il
contratto agricolo, che prevede anche un anno di lavoro con una previsione
ad esempio di 50 giornate. Loro poi gliene fanno lavorare anche 100, scrivono
comunque 50 e li pagano solo per queste ultime» (FLAI-CGIL).
Nei casi più gravi può capitare che il responsabile dell’azienda, nonostante il migrante abbia lavorato per quasi un anno intero, segni in busta e
paghi alla ine soltanto poche settimane. Il danno per il lavoratore è molteplice, poiché un basso numero di ore lavorate all’anno implica anche una
riduzione del monte complessivo dei contributi versati e può precludere
l’accesso alla disoccupazione agricola. Questa richiede infatti almeno 102
contributi giornalieri nel biennio costituito dall’anno cui si riferisce l’indennità e dall’anno precedente, previa iscrizione negli elenchi agricoli per almeno
due anni. Comunque, tale istituto non copre i lavoratori con permesso di
soggiorno per lavoro stagionale, com’è buona parte dei braccianti che hanno
denunciato situazioni di sfruttamento nella vitivinicoltura senese.
Lo sfruttamento appare altrettanto nascosto e dificile da provare nel
caso delle restituzioni di denaro richieste dai datori di lavoro a fronte della
fornitura di trasporto, alloggio e vitto. Si tratta di un elemento caratterizzante di questo modello in cui, come i caporali in altri contesti rurali, sono
le società contoterziste a reclutare e trasportare i braccianti immigrati nei
poderi delle aziende agricole committenti. «I lavoratori vengono portati in
camioncini la mattina ai ilari delle viti e ripresi la sera, senza che loro stessi
sappiano esattamente dove siano stati» (Ciuti 2012). Nel caso di più giornate di lavoro è frequente che venga loro fornito anche un alloggio in vecchi
casolari o persino in stalle, comunque sempre in condizioni estremamente
precarie e disagiate. È il caso segnalato da un kosovaro messo a dormire con
gli animali. Lo stesso vale per il vitto, scarso sia per quantità che per qualità,
e per la fornitura di acqua potabile. «Quando non lavorano, il cibo se lo pagano. Quando lavorano glielo portano al campo: una stagna d’acqua in cima
al ilare, che deve servire a tutti, e un panino» (Ciuti 2012).
In altri contesti rurali, com’è noto, la decurtazione del salario per i “servizi” di trasporto, vitto e alloggio forniti dai caporali avviene per così dire
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Sempre in base alle ricerche dell’ISFOL (2012), si tratta di uno dei fenomeni più diffusi
di irregolarità nel settore agricolo: secondo il 62,3% degli intervistati riguarda oltre un
quinto dei lavoratori.
IL CASO DEI LAVORATORI IMMIGRATI NELLA VITIVINICOLTURA SENESE
alla fonte, ossia viene calcolato già al momento del pagamento. Nel settore
della logistica, paragonabile al caso senese in quanto anch’esso caratterizzato
da forme semi-legali o legalizzate di sfruttamento, simili deduzioni vengono
spesso inserite in busta paga. La particolarità del caso di Siena, con una pratica certamente diffusa anche in altri contesti, è quella per la quale la decurtazione del salario avviene dopo il pagamento sotto forma di restituzione di
denaro in contanti. I braccianti non possono sottrarsi a questa prassi se vogliono lavorare. Si tratta di somme che, a ine mese, possono superare le varie centinaia di euro, e che, senza contare le modalità irregolari e impositive,
vanno ben oltre quanto previsto per esempio dall’ultimo Verbale di accordo
per il rinnovo del CCNL degli operai agricoli, in base al quale al personale cui
viene fornito vitto e alloggio è possibile effettuare la trattenuta giornaliera di
2,32 euro per il pernottamento e la prima colazione, 2,58 euro per il pranzo
e 2,58 euro per la cena.
Questa organizzazione del lavoro fa sì che, oltre alla dimensione strettamente economica dello sfruttamento legata all’equità dello scambio tra tempo lavorato e salario, i braccianti immigrati vivano anche un’altra dimensione tipica del lavoro sfruttato, ossia la violazione della libertà dello scambio
suddetto. In un modo di produzione capitalistico si tratta comunque di una
libertà formale e condizionata, dal momento che la maggioranza della popolazione è privata dei mezzi di produzione e non ha alternativa per vivere
se non offrire, a tempo, la propria forza lavoro in cambio di salario (Elster
1983). Nel caso in esame, la libertà dello scambio sul mercato del lavoro
risulta essere particolarmente condizionata, in primo luogo dallo status giuridico dei lavoratori in questione, kosovari, serbi, albanesi e tunisini, presenti
in Italia come stagionali o con permessi di soggiorno per lavoro subordinato,
o afgani e curdi coperti da qualche forma di protezione umanitaria. Se per
tutti, soprattutto in un momento di crisi, vale il ricatto occupazionale ossia
la minaccia di essere licenziati e perdere la garanzia di un reddito, per i
lavoratori con permesso di lavoro stagionale le costrizioni sono ancora più
stringenti. Questi vengono reclutati nei paesi d’origine dai responsabili delle
società contoterziste, o da personaggi a esse collegate, allo scopo di essere
impiegati negli appalti stipulati da queste società con le aziende agricole.
Poco o niente si sa delle eventuali promesse fatte ai lavoratori rispetto a
una loro permanenza regolare e prolungata in Italia, o se l’ingaggio avvenga dietro pagamento di un corrispettivo o attraverso la fornitura di lavoro
gratuito per un certo periodo di tempo. In ogni caso, il permesso per lavoro
stagionale, ancorché convertibile in altro permesso per lavoro subordinato
nell’ambito delle quote disponibili dopo che lo straniero sia stato autorizzato
per la seconda volta a entrare in Italia come stagionale, rende il lavoratore
particolarmente dipendente dal datore di lavoro, al cui arbitrio è legato il suo
diritto di restare e lavorare regolarmente in Italia.
Alla vulnerabilità dello status giuridico si intreccia, quindi, la sostanziale
dipendenza dei braccianti dal datore di lavoro per il trasporto e l’alloggio.
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LEGGI, MIGRANTI E CAPORALI
Tale dato risulta ancor più rilevante in un territorio, come quello della campagna senese, che non dispone di una rete di trasporto pubblico idonea a
sopperire allo speciico bisogno di mobilità dei lavoratori agricoli, né offre
opportunità abitative diffuse e accessibili sia in termini di costi che di logistica. In queste condizioni, il ruolo delle aziende contoterziste resta insostituibile e funziona come elemento di ricatto. «Spesso presso la medesima azienda
sono impiegati lavoratori dello stesso nucleo familiare. Magari vivono in un
alloggio messo a loro disposizione dall’azienda stessa, anche in condivisione
con altre persone. Quindi il rischio, in caso di una vertenza di lavoro, non è
solo quello di perdere il posto ma quello di perdere tutto, a partire dall’alloggio per sé e la propria famiglia» (FLAI-CGIL).
Si determina così una situazione di forte controllo sui lavoratori, rafforzata circolarmente dall’instaurarsi di condizioni di isolamento e segregazione.
«Le aziende mettono a dormire i lavoratori in case di campagna lontane dai
paesi, in modo che nessuno si accorga che ci sono» (Ciuti 2012): separati
isicamente, oltre che socialmente, dal resto della popolazione, dificilmente
raggiungibili sia dai rappresentanti sindacali che dagli addetti ai controlli sul
lavoro, i braccianti si trovano alla mercé dei datori di lavoro. Dicono di essere
stati trattati male, ma non sanno neanche esattamente dove hanno lavorato.
Le società contoterziste fungono da questo punto di vista da caporali legalizzati: «conoscono bene il territorio, hanno costruito legami con le aziende
agricole, e operano appositamente in zone poco accessibili, in vere e proprie
terre di conine tra le province, dove non si sa neanche bene chi avrebbe la
responsabilità istituzionale di monitorare la situazione e intervenire, come
nella zona del Brunello ai conini con il grossetano, o in quella del Chianti ai
conini con la provincia di Firenze» (FLAI-CGIL).
Inoltre, in questo contesto di grave vulnerabilità esistenziale, chi prova
a ribellarsi al sistema di sfruttamento viene minacciato o licenziato, ino a
divenire oggetto di violenza isica. La mancanza di sostanziale libertà nello
scambio tra tempo lavorato e salario dà luogo, in questo caso, a situazioni in
cui viene compromessa l’integrità psico-isica del lavoratore: una ulteriore,
evidente dimensione dello sfruttamento. «Un bracciante afgano, che si era
rivolto alla FLAI-CGIL e per il quale il sindacato era riuscito a istruire una
vertenza presso la Direzione Provinciale del Lavoro, è stato caricato alla ine
di una strada su un camion e picchiato di santa ragione. Il proprietario di
questa azienda ha un fratello “picchiatore” e quando i lavoratori chiedono
del denaro o minacciano di denunciare vengono puniti» (Ciuti 2012). È questo un tipico esempio che testimonia quanto questi lavoratori siano completamente assoggettati ai datori di lavoro e come per i sindacati sia molto
dificile stabilire delle relazioni e organizzare la forza lavoro. In altri casi la
violenza ha costituito un metodo per non pagare i lavoratori: come a Castellina in Chianti, dove «cinque braccianti il giorno della paga, invece dei soldi,
hanno trovato il “padrone” con degli amici nerboruti che hanno iniziato a
picchiarli, facendoli scappare» (Ciuti 2012).
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IL CASO DEI LAVORATORI IMMIGRATI NELLA VITIVINICOLTURA SENESE
Alla luce di queste condizioni di vita e di lavoro, non sorprende la dificoltà registrata dal sindacato nel portare a termine vertenze di lavoro a
difesa dei lavoratori sfruttati. Dopo un primo accesso spesso i braccianti non
tornano più in CGIL.
Nonostante le numerose segnalazioni, infatti, nessuno ha proseguito
un’azione fino in fondo contro i propri datori di lavoro, per il timore di
perdere il posto e di subire ritorsioni. Abbiamo avuto un caso di un gruppo
di lavoratori che hanno denunciato il fatto di non ricevere una retribuzione regolare. L’azienda era una di quelle che lavorano in contoterzismo. La
denuncia è stata raccolta dalla Direzione Provinciale del Lavoro di Siena,
che ha passato la pratica a Grosseto, sede dell’azienda, mentre i lavoratori
vivono e lavorano nel senese. Al momento della convocazione per la conciliazione due lavoratori non si sono presentati e uno ha iniziato a parlare
nella propria lingua col datore di lavoro connazionale, trovando un accordo
di cui però non si sono conosciuti gli estremi (FLAI-CGIL).
In parte è giustiicato il timore dei sindacalisti che diversi lavoratori non
siano pienamente consapevoli di essere oggetto di sfruttamento anche grave
e non conoscano i propri diritti. È pur vero che informare tutti i lavoratori
sulle norme in vigore, sviluppare la loro capacità di apprezzare lo scarto tra
ciò che le norme prevedono e ciò che viene effettivamente praticato, organizzare i lavoratori e fornire loro le indicazioni necessarie per fare valere i
propri diritti, è compito proprio del sindacato. Le ragioni per cui tale compito
viene portato avanti solo in parte sono varie: innanzitutto, «la persistenza di
relazioni sindacali arretrate, con un ruolo del sindacato nei luoghi di lavoro
osteggiato e poco riconosciuto» (FLAI-CGIL). A ciò si sommano le dificoltà
ambientali, legate alla dispersione delle realtà lavorative, alla loro frammentazione e al loro numero elevato, a fronte di un personale sindacale relativamente ridotto. «Ha un peso anche la peculiarità della forza lavoro che si
tratta di organizzare. Tra i lavoratori agricoli troviamo un’ampia eterogeneità
di nazionalità e questo rende dificili sia le relazioni fra loro stessi, sia le
relazioni col sindacato, perché ci sono veramente tanti ostacoli linguistici e
culturali da gestire» (FLAI-CGIL).
Il risultato inale, di certo svantaggioso per i lavoratori, è che il sindacato a Siena non è presente nelle società che lavorano in conto terzi per le
aziende agricole.
3. Esternalizzare lo sfruttamento: il ricorso agli appalti presso le
aziende senza terra
C’è un nesso ricorrente tra queste forme emergenti di sfruttamento del
lavoro migrante, che funzionano e si riproducono dietro lo schermo di un’apparente legalità, e il ricorso agli appalti in agricoltura. Giuridiicazione ed
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LEGGI, MIGRANTI E CAPORALI
esternalizzazione dello sfruttamento sembrano tenersi a vicenda: sono i lati
di una medesima strategia aziendale volta ad abbattere sia il costo del lavoro
che i costi di gestione della manodopera, nonché i rischi legati a possibili
sanzioni in materia di lavoro nero e di assunzione di lavoratori senza permesso di soggiorno, non rinunciando allo sfruttamento, ma spostandone gestione e responsabilità immediata sui soggetti marginali della iliera produttiva.
Per inquadrare in generale il fenomeno degli appalti in agricoltura va
richiamata brevemente la composizione della forza lavoro agricola, la normativa sulle relazioni lavorative e le tipologie contrattuali diffuse nel settore.
Occorre inoltre tenere presente che la stagionalità e l’esposizione agli eventi
meteorologici, unite al declino tendenziale della manodopera nazionale disponibile e della redditività per i produttori, continuano a fare dell’agricoltura un settore sui generis caratterizzato da regole e dinamiche del mercato
del lavoro speciiche.
Secondo l’ultimo Censimento generale dell’agricoltura, nel 2010 svolgevano attività agricole nel paese 958.931 persone. La composizione di tale
manodopera vede ancora al centro i proprietari e i loro familiari, che concorrono al 79,1% delle Unità di Lavoro Annuo (ULA), parametro che tiene conto
del numero di giornate e ore lavorate standardizzate da ciascuna persona. Il
lavoro dipendente, in cui rientra chiunque presti dietro corrispettivo la propria opera manuale per la coltivazione di fondi o l’allevamento di bestiame
per un’azienda agricola, è distinto in altra manodopera non regolare, che
costituisce secondo stime il 12,1% delle ULA, e altra manodopera regolare,
che costituisce l’8,8% delle ULA (ISTAT 2013a, p. 76). Il settore agricolo è,
in effetti, quello nel paese con la maggiore incidenza di irregolarità lavorativa, cresciuta dal 20,9% del 2001 al 24,5% del 2009, ino al 32% nel 2014
(Eurispes-UILA 2014).
Dei lavoratori dipendenti in agricoltura, regolari e non, un numero crescente e signiicativo è costituito, com’è noto, da immigrati (INEA 2013; IDOS
2014). Si tratta di un elemento strutturale che risponde, da un lato, al declino
della gestione familiare e della manodopera locale, dall’altro al bisogno del
settore di lavoratori precarizzati, vulnerabili e disponibili a salari bassi e a
lavorare in nero, così da consentire a molte aziende di reggere la crescente
pressione sui prezzi dei prodotti operata da commercianti, industrie conserviere e catene della grande distribuzione organizzata, nel quadro della forte
competizione internazionale dovuta alla liberalizzazione dei mercati agricoli
e al potere delle multinazionali dell’agro-business (Colloca - Corrado 2013).
I lavoratori a tempo determinato sono largamente prevalenti, costituendo
il 95,9% degli operai agricoli, a fronte del 4,1% assunto a tempo indeterminato (ISTAT 2013a, elaborazione propria). Tale composizione risente del fatto
che, per le caratteristiche del settore, il lavoro a termine non è considerato
l’eccezione ma la regola, tanto che il mercato del lavoro agricolo è stato storicamente escluso dalle norme sul lavoro a tempo indeterminato. Valga come
esempio l’esclusione degli operai agricoli a tempo determinato dalle dispo-
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IL CASO DEI LAVORATORI IMMIGRATI NELLA VITIVINICOLTURA SENESE
sizioni contenute nel d.lgs. n. 368/01, in attuazione della Direttiva 1999/70/
CE sul lavoro a tempo determinato, e delle successive modiiche introdotte
con la Legge n. 247/07, a partire dalla mancanza dell’obbligo di indicare per
iscritto le ragioni dell’apposizione del termine del contratto: acausalità nel
frattempo estesa dalle ultime “riforme” del mercato del lavoro a tutti i nuovi
contratti a tempo determinato nel settore privato, prima per 12 mesi (Legge
n. 92/2012) e ora ino a 36 mesi (Legge n. 78/2014). La precarietà degli operai avventizi è, almeno in parte, attenuata dal diritto di riassunzione previsto
dall’articolo 17 del CCNL e dettagliato dall’articolo 4 del Contratto Provinciale di Siena:
i lavoratori che hanno prestato attività lavorativa a carattere stagionale
con contratto di lavoro a tempo determinato o per fasi lavorative individuate nel presente contratto, hanno diritto a essere riassunti per l’esecuzione
delle stesse lavorazioni, presso le stesse aziende dove hanno prestato lavoro
nell’anno precedente. Hanno titolo alla riassunzione i lavoratori che abbiano
manifestato per iscritto alle imprese, nel termine di tre mesi dalla cessazione
del precedente rapporto di lavoro, la loro disponibilità alla riassunzione.
Negli ultimi anni la disciplina di alcuni contratti speciali di lavoro – apprendistato, lavoro intermittente, lavoro ripartito, lavoro somministrato – è
stata estesa anche al settore agricolo con l’idea di favorire l’emersione del lavoro irregolare. Con questo scopo dichiarato, il d.l. 112/2008 con successive
modiiche ha esteso a tutto il settore agricolo l’applicazione dei vouchers con
cui le aziende pagano i lavoratori nell’ambito del cosiddetto lavoro accessorio. Dopo una prima fase di sperimentazione per la vendemmia 2008, rivolta
esclusivamente a studenti e pensionati, questa tipologia di lavoro è divenuta
applicabile anche alle prestazioni occasionali svolte dalla generalità dei lavoratori agricoli, con l’esclusione degli iscritti negli appositi elenchi anagraici,
per qualunque attività svolta in aziende con un volume d’affari annuo inferiore a 7.000 euro. Datori di lavoro e lavoratori, dopo essersi registrati presso
l’INPS, utilizzano vouchers numerati progressivamente e datati del valore
nominale di 10 euro, di cui 7,50 vanno al lavoratore, mentre 2,50 servono
per contributi previdenziali, copertura assicurativa e spese del servizio. Al
termine del rapporto, il datore di lavoro corrisponde al lavoratore il compenso concordato e l’INPS accredita i contributi dovuti nella gestione separata.
Tuttavia, non esistendo un minimo orario giornaliero il lavoro accessorio può
nascondere lavoro grigio: «ogni voucher vale un’ora, che però può diventare
4 o 5 ore senza che nessuno se ne accorga» (Ciuti 2012).
In un simile mercato del lavoro, già caratterizzato da elevata lessibilità
e precarietà delle relazioni lavorative, le società che operano in conto terzi
tramite appalti impiegando propria manodopera introducono un ulteriore
livello di lessibilizzazione, teso ad aggirare e indebolire le tutele della
contrattazione nazionale e provinciale del settore. Si tratta di una forma di
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LEGGI, MIGRANTI E CAPORALI
esternalizzazione, analoga al fenomeno di terziarizzazione vissuto dall’industria manifatturiera italiana nel corso degli ultimi trent’anni. Tale fenomeno va distinto dal più noto contoterzismo che offre macchine agricole
alle aziende che ne sono sprovviste: nel caso in esame, invece, il servizio
consiste esclusivamente in lavoro manuale afidato a squadre di braccianti.
Ora,
mentre le società contoterziste che forniscono anche i macchinari in
genere svolgono il lavoro regolarmente, quelle che hanno solo le braccia da
offrire sono una giungla di irregolarità. I titolari sono nella maggior parte
anch’essi stranieri, che hanno iniziato da sfruttati e poi si sono arrangiati.
Hanno un numero ben nutrito di braccia da fare arrivare dal loro paese d’origine. L’azienda appaltatrice visita l’azienda agricola e propone un prezzo.
L’agricoltore paga e poi a gestire gli operai ci pensa l’azienda senza terra,
non è più cosa che riguardi l’agricoltore (Ciuti 2012).
In gergo vengono chiamate “aziende senza terra”, anche se tale espressione è priva di riscontro dal punto di vista tecnico-giuridico, ed è stata coniata per riferirsi alle aziende non deinibili agricole ai sensi del previgente
articolo 2135 del Codice civile, per il quale il possesso del fondo era indispensabile ai ini della deinizione di una azienda come agricola. La non indispensabilità del possesso del fondo, introdotta dal nuovo articolo 2135, non
modiica l’inquadramento di tali aziende, in quanto il riferimento dirimente è
ora al ciclo biologico o a una fase dello stesso, e la sua mancanza continua a
escludere la possibilità di deinire agricole tali aziende (circolare INPS n. 126
del 16 dicembre 2009).
Dal punto di vista societario, le cosiddette aziende senza terra sono inquadrate come società di servizi o, in alcuni casi, come cooperative. Hanno
dimensioni variabili: «spesso non superano i quindici dipendenti, ma possono raggiungere anche le centinaia di addetti» (FLAI-CGIL). In generale, il
ricorso a tali società attraverso appalti risponde a varie esigenze, che mutano
in base alle dimensioni e alle caratteristiche delle aziende agricole committenti. Alcune vi fanno ricorso solo in determinate circostanze, altre in maniera sistematica e continua. Attraverso il contoterzismo le aziende di maggiori
dimensioni riducono la numerosità della forza lavoro da gestire internamente
e accrescono la propria lessibilità produttiva e organizzativa. Le aziende di
minori dimensioni invece possono raggiungere capacità produttive maggiori
senza la necessità di ampliare la propria organizzazione interna e il proprio personale, con i relativi costi e rischi. Entrambe possono far fronte alla
dificoltà di reperire personale in determinate fasi della stagione, specie in
contesti a bassa disponibilità di forza lavoro, e possono gestire incertezze e
oscillazioni del mercato, preferendo non avere propri operai nei confronti
dei quali dover successivamente rispettare il diritto di riassunzione, ma attendendo le fasi di picco per procedere ad appalti.
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IL CASO DEI LAVORATORI IMMIGRATI NELLA VITIVINICOLTURA SENESE
La Provincia di Siena si caratterizza in Toscana per il più elevato ricorso
in agricoltura a «lavoratori non assunti direttamente dall’azienda», in gran
parte messi al lavoro nell’ambito di appalti stipulati con società contoterziste:
si tratta del 4,04% della manodopera agricola totale e del 10,46% della manodopera salariata, a fronte del dato regionale rispettivamente dell’1,51% e del
6.45% (Regione Toscana 2012, p. 45, elaborazione propria). La più frequente
motivazione addotta per giustiicare il ricorso agli appalti è quella della crisi
e delle dificoltà economiche degli agricoltori, inclusi i produttori di vino.
Al tempo stesso, i dati disponibili (Regione Toscana 2012, ISTAT 2013a) non
sembrano supportare questa motivazione. Se è vero, infatti, che le aziende
agricole della provincia non hanno assunto, sono diminuite le ore di lavoro
degli avventizi, si è ridotto il numero di aziende ed è aumentata in media la
loro supericie agricola utilizzata (SAU), è anche vero che gli occupati nella
coltivazione della vite e nella produzione del vino sono gli unici a essere
cresciuti. Inoltre, la prima diffusione di appalti relativi alla sola fornitura di
manodopera è precedente alla recessione economica.
La crisi sembra dunque invocata piuttosto come alibi per ristrutturare i
rapporti di lavoro a vantaggio della parte padronale, in un territorio come
quello senese in cui, per varie ragioni, la forza lavoro salariata è più garantita
che altrove. Il modello aziendale prevalente vede la conduzione diretta al
92,7% (la più bassa in Toscana) e la presenza di salariati al 6,8% (la più alta in
Toscana), per un totale di circa 12.000 lavoratori dipendenti occupati in agricoltura, di cui il 35-40% è straniero. In base ai dati del Fondo Integrativo Malattia, Infortunio e Assistenza Varia (FIMIAV), l’80% dei lavoratori dipendenti
sono a tempo determinato, mentre il 20% è assunto a tempo indeterminato
(FIMIAV 2013): una quota relativamente elevata rispetto al dato nazionale,
sopra menzionato, del 4,1%. Si tratta, soprattutto nelle grandi aziende, di
lavoro idelizzato anche grazie ad accordi territoriali stipulati dal sindacato.
Per le realtà più grandi abbiamo siglato delle convenzioni: i lavoratori
hanno per due o tre anni un certo numero di giornate lavorative garantite per ciascun anno. Altrimenti il loro rapporto di lavoro inizia e finisce
ogni anno, e la ricattabilità è elevata. Tuttavia negli ultimi anni si registrano
pressioni sempre maggiori, e anche licenziamenti di tempi indeterminati e
riassunzioni a termine, dietro la minaccia di ricorrere a lavoratori in appalto
(FLAI-CGIL).
Allo stesso tempo, in controtendenza rispetto al dato complessivo del
sommerso nell’economia regionale, il tasso di irregolarità nel settore agricolo della provincia è aumentato dal 23,8% del 2001 al 28,3% del 2011 (ISTAT
2013b).
Si può dunque affermare che gli appalti servono, in un simile contesto,
ad abbassare le tutele senza ricorrere al lavoro nero vero e proprio, aggirando i vincoli di legge nel ricorso a forme atipiche di lavoro. Su questa
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LEGGI, MIGRANTI E CAPORALI
peculiare strategia aziendale, volta a comprimere drasticamente il costo della
manodopera, possono avere pesato anche altri fattori contingenti: l’intenzione di ammortizzare rapidamente i costi sostenuti, negli ultimi anni, da quei
produttori passati a vigneti ad alta intensità di impianto, ossia con una maggiore densità di piante per ettaro; i passaggi di proprietà, da una generazione
all’altra o a imprenditori stranieri, avvenuti nel segno di una cultura imprenditoriale orientata al massimo proitto nel minor tempo possibile.
Conoscendo il costo della manodopera issato dalla contrattazione collettiva, le aziende committenti sono ben consapevoli che dietro appalti al ribasso si cela sfruttamento e lavoro grigio. In questo modo vengono meno, tra
l’altro, alle proprie responsabilità legali richiamate dal CPL di Siena (art. 20bis), che a sua volta richiama la normativa nazionale. I datori di lavoro devono infatti accertarsi che il soggetto appaltatore sia un’impresa regolarmente
abilitata a effettuare determinate lavorazioni e sia regolarmente iscritta al
registro delle imprese presso la Camera di commercio, e soprattutto dia pieno rispetto al contratto di categoria nella sua applicazione ai lavoratori dipendenti e alle norme di sicurezza del lavoro. Al tempo stesso, oltre a essere
esposte alla possibilità di controlli da parte delle autorità e di vertenze da
parte dei lavoratori che invochino la solidarietà tra appaltante e committente
(sul punto infra), le aziende che ricorrono a questo genere di appalti rischiano un progressivo abbassamento nella qualità sia dell’imprenditorialità che
del prodotto inale in quanto afidano anche fasi delicate del processo produttivo a una manodopera dall’incerto livello professionale.
4. Sanzioni e tutele contro lo sfruttamento emergente: tra norme non
applicabili e norme dificilmente applicabili
Le speciiche forme di sfruttamento, giuridiicato ed esternalizzato, vissute dai braccianti immigrati regolari nella vitivinicoltura senese mettono
in questione l’eficacia, anche in casi analoghi, delle sanzioni per i datori di
lavoro e delle tutele per i lavoratori teoricamente attivabili nell’ordinamento
italiano. Alcune norme risultano non applicabili, in quanto riferite a casi di
immigrazione irregolare, a condizioni lavorative ed esistenziali di maggiore
gravità o di diversa natura, a situazioni di irregolarità nel ricorso all’appalto
o di lavoro sommerso in senso stretto, non riscontrabili in questo caso. Altre norme, per esempio quelle contro il caporalato o la tratta, o in materia
di differenze retributive e responsabilità solidale negli appalti, appaiono di
dificile applicazione.
Finora in Italia lo sfruttamento lavorativo dei migranti è stato perseguito
principalmente ricorrendo a due fattispecie penali: quella del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art. 12, co. 5, d.lgs. 25 luglio 1998
n. 286, t.u. immigrazione) e quella dell’assunzione degli stranieri irregolari
(art. 22, co. 12 e 12-bis, t.u. immigrazione). Quest’ultima fattispecie rileva
60
IL CASO DEI LAVORATORI IMMIGRATI NELLA VITIVINICOLTURA SENESE
non nell’ipotesi semplice, che punisce il fatto di occupare alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno, o il cui permesso
sia scaduto, revocato o annullato, ma nell’ipotesi aggravata che persegue
invece casi di particolare sfruttamento lavorativo, prevedendo la possibilità
di un permesso di soggiorno per chi denunci il proprio datore di lavoro
e collabori alle indagini. Prima dell’introduzione di questa aggravante col
d.lgs. 16 luglio 2012 n. 109, lo sfruttamento era colpito invocando piuttosto il favoreggiamento della permanenza dello straniero irregolare al ine di
trarre un ingiusto proitto, mentre l’art. 22, t.u. immigrazione era riferito a
casi di impiego senza sfruttamento. L’introduzione dell’aggravante ha fatto
venir meno questa distinzione, così che le ipotesi di sfruttamento di stranieri
irregolari tendono oggi a cadere sotto l’ipotesi aggravata dell’art. 22, anche
più gravemente sanzionata rispetto al favoreggiamento della permanenza. Si
tratta, a ogni modo, e senza entrare ulteriormente nel merito delle numerose
dificoltà interpretative e applicative, di due norme che non si applicano se
i lavoratori immigrati sfruttati sono regolari (cfr. Pittaluga - Momi, in questo
volume).
La regolarità o meno del soggiorno non rileva nel reato di riduzione o
mantenimento in schiavitù o in servitù (art. 600, c.p.). Al tempo stesso, la giurisprudenza della Cassazione (n. 44385/2013, n. 25408/2014, n. 8370/2014)
ha richiesto in qui la presenza di uno stato di soggezione continuativa delle
vittime, ossia di una compromissione di durata prolungata nel tempo della
capacità di autodeterminazione della persona offesa, con un potere del datore di lavoro che si estende oltre l’orario di lavoro all’intera vita del soggetto,
sia pure senza un’integrale privazione della libertà e della mobilità personale. È abbastanza evidente che queste circostanze ricorrano di rado alle
nostre latitudini e lascino fuori gran parte dei casi di sfruttamento, anche
relativamente gravi, come quelli denunciati nella vitivinicoltura senese, oltre
a essere dificili da provare e ricostruire nel procedimento penale.
In ambito non penale poi, non sembra applicabile quanto previsto dalla
maxisanzione contro il lavoro nero (art. 3, l. n. 73/2002 e successive modiiche). Il presupposto fondamentale per l’applicazione della norma è dato
dall’impiego di lavoratori senza preventiva comunicazione al Centro per
l’Impiego. Restano fuori dall’ambito della sanzione i rapporti di lavoro non
occultati in assoluto, ma mistiicati da tipologie contrattuali non genuine (lavoro grigio), sempre che il rapporto sia stato regolarmente denunciato agli
organi competenti (cfr. Ministero del Lavoro, circolare n. 29/2006). Nel caso
di specie, infatti, i braccianti immigrati lavoravano tutti con contratti regolari.
Inine, risulta a prima vista inapplicabile al caso speciico anche la norma
che proibisce l’appalto ittizio o fraudolento quale forma di interposizione
illecita di manodopera, ovvero quel contratto di fornitura di opere e servizi
che non rispetta i requisiti degli appalti genuini di cui all’art. 29 del d.lgs.
n. 276/2003 e all’art. 1655, c.c. In base a tali requisiti, l’organizzazione dei
mezzi produttivi, la direzione dei lavoratori e il rischio d’impresa devono
61
LEGGI, MIGRANTI E CAPORALI
essere intestati all’appaltatore e non al committente o all’utilizzatore delle
prestazioni. Secondo quanto riferito dai lavoratori al sindacato, invece, una
volta sottoscritto il contratto di appalto la forza lavoro sarebbe interamente
gestita dalla società contoterzista.
Si potrebbe tuttavia provare a sostenere la tesi che gli appalti in esame,
avendo a oggetto unicamente la fornitura di manodopera, e avendo per ine
ultimo lo sfruttamento dei lavoratori sotto il proilo della retribuzione nonché delle condizioni lavorative, logistiche e alloggiative, rappresentino una
forma legalizzata di caporalato, punibile ai sensi dell’art. 603-bis, c.p.. Com’è
noto la fattispecie incrimina chiunque svolga un’attività d’intermediazione
in modo organizzato, reclutando manodopera od organizzando un’attività
lavorativa caratterizzata da sfruttamento, ricorrendo a violenza, minaccia, intimidazione, o approittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori. L’elemento qualiicante del reato va individuato nella inalità e nella
modalità dello sfruttamento che motiva l’intermediazione e che distingue la
violazione delle norme regolatorie del mercato del lavoro, quali quelle sugli
appalti ittizi o fraudolenti, dalla violazione dei diritti di libertà sanzionata
penalmente. Tuttavia, sulla concreta applicazione del reato pesano i limiti
ben noti di questa norma (cfr. di Martino, in questo volume): dalla mancata
esplicita menzione del datore di lavoro tra i soggetti attivi del reato, all’assenza di forme incisive di contrasto come per esempio il sequestro dei beni
e delle strutture produttive, o l’esclusione dai inanziamenti pubblici regionali ed europei, alla mancanza di tutela e di reali alternative per i lavoratori
sfruttati, in termini di sostegno al reddito e di accesso al mercato del lavoro
regolare, alla casa, a un sistema pubblico di collocamento e di trasporto sui
luoghi di lavoro.
La nuova formulazione del reato di tratta (art. 601, c.p.) è, tra le norme
penali, quella che sembra potersi meglio applicare al caso speciico, garantendo anche un discreto livello di tutela dei lavoratori. A seguito del recepimento, sia pure parziale e incompleto, della Direttiva 2011/36/UE (ASGI
2012), il reato punisce non solo chiunque recluta, introduce nel territorio
dello Stato, trasferisce anche al di fuori di esso, trasporta, cede l’autorità sulla persona, ospita una o più persone che si trovano nelle condizioni di cui
all’articolo 600 (riduzione in schiavitù), ma anche chiunque realizza le stesse
condotte su una o più persone, mediante inganno, violenza, minaccia, abuso
di autorità o approittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità
isica, psichica o di necessità, o mediante promessa o dazione di denaro o
di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, al ine di indurla o
costringerla a prestazioni lavorative, sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento.
La nuova fattispecie non punisce solo il trasporto attraverso i conini
nazionali, ma anche il fatto di reclutare, spostare sul territorio nazionale,
cedere od ospitare la vittima. Quest’ultima non è necessario sia nello stato
di soggezione continuativa propria della riduzione in schiavitù o servitù, né
62
IL CASO DEI LAVORATORI IMMIGRATI NELLA VITIVINICOLTURA SENESE
che vi sia destinata: è suficiente che si persegua a suo danno uno scopo di
sfruttamento, in modi che includano la violenza isica o psichica, e soprattutto l’abuso di una «posizione di vulnerabilità», deinita dalla Direttiva europea
anti-tratta come «una situazione in cui la persona in questione non ha altra
scelta effettiva e accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima», tanto da
rendere irrilevante l’eventuale consenso dato alla relazione lavorativa6. Vari
limiti rendono, tuttavia, anche questa nuova norma di dificile applicazione e
di eficacia circoscritta: la competenza per il suo accertamento è afidata alla
Direzione Distrettuale Antimaia, invece che ai procuratori che si occupano
normalmente di illeciti lavorativi; la sanzione, dagli otto ai venti anni, appare
sproporzionata per perseguire lo sfruttamento lavorativo e ne scoraggia l’applicazione; l’interpretazione della tratta come condizione di sfruttamento differente e autonoma dalla riduzione in schiavitù o servitù non è paciica. Inoltre, nonostante il loro relativo successo, i programmi previsti dal percorso
sociale dell’articolo 18 t.u. immigrazione, nel momento in cui il problema del
permesso di soggiorno è superato perché le vittime sono regolari, appaiono
spesso insuficienti a rispondere al bisogno immediato di reddito espresso
dai lavoratori, soprattutto in tempo di crisi e se questi si trovano nella perdurante necessità di inviare rimesse nel paese d’origine (Palumbo 2015).
Tra le norme penali quella di più agevole applicazione al caso speciico
resta, probabilmente, l’estorsione (art. 629, c.p.). Il reato ricorre, in forma aggravata e continuata, nel caso di lavoratori costretti ad accettare trattamenti retributivi deteriori e non corrispondenti alle prestazioni effettuate e, in genere,
condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi poste dal datore
di lavoro in una situazione di condizionamento morale, in cui ribellarsi alle
condizioni vessatorie equivaleva a perdere il posto di lavoro (Cass. penale, sez.
II, n. 36642/2007). Come recentemente affermato dalla Corte di cassazione, integra la minaccia costitutiva del delitto di estorsione la prospettazione da parte
del datore di lavoro ai dipendenti, in un contesto di grave crisi occupazionale,
della perdita del posto di lavoro per il caso in cui non accettino un trattamento
economico inferiore a quello risultante dalle buste paga (Cass. penale, sez. II,
n. 28695/2013). Tuttavia, l’estorsione richiede il requisito della violenza o della
minaccia, più stringente rispetto all’approittamento dello stato di bisogno o di
una condizione di vulnerabilità.
In sede civile resta la possibilità per i lavoratori sfruttati di aprire una
controversia individuale di lavoro (art. 409, c.c.) richiedendo la condanna del
datore di lavoro per ogni retribuzione arretrata. Nell’ambito di tale controversia possono trovare spazio molte delle circostanze occorse ai braccianti
immigrati nella vitivinicoltura senese, in particolare l’erogazione di una retribuzione base inferiore a quella prevista dal CCNL, il mancato riconoscimento
6
Cfr. art. 2 della Direttiva 2011/36/UE.
63
LEGGI, MIGRANTI E CAPORALI
delle ore di lavoro normale e straordinario prestate, omissioni o errori nella
busta paga. Il calcolo delle differenze retributive dovute assume a parametro
base il minimo contrattuale, ma va poi speciicato in relazione alle mansioni
concretamente svolte, sulla base di quanto dichiarato e provato dalle parti: ciò anche alla luce della natura precettiva dell’art. 36 della Costituzione
nella determinazione della giusta retribuzione (Cass. civile, sez. lavoro, n.
4070/1999).
I lavoratori possono promuovere, anche tramite l’associazione sindacale
alla quale aderiscono o conferiscono mandato, un tentativo di conciliazione
presso la Direzione Provinciale del Lavoro (art. 410, c.c.). Qualora questo
tentativo non vada a buon ine, il ricorso può essere inoltrato al giudice del
lavoro competente (art. 414, c.c.), tenendo presente due tipi di prescrizione:
la prescrizione breve o estintiva di cinque anni per il reclamo delle differenze retributive e, in generale, per tutte le indennità spettanti al lavoratore per
la cessazione del rapporto di lavoro; la prescrizione presuntiva di un anno
per le retribuzioni pagate con cadenza non superiore al mese (irregolarità
della busta paga), o di tre anni per le retribuzioni corrisposte con cadenza
superiore al mese (tredicesima mensilità e altre retribuzioni aggiuntive). A
questi limiti di legge si aggiungono le dificoltà che lavoratori particolarmente vulnerabili, come quelli del caso qui analizzato, avviino una vertenza di
lavoro: sia per il prevedibile effetto di perdere il posto e dunque un reddito,
per quanto decurtato, sia per il rischio di non trovare più lavoro nello stesso
settore e nello stesso territorio, sia per i già ricordati timori di ritorsioni. Con
gli attuali tempi della giustizia, in assenza di percorsi protetti di assistenza
legale, il diritto di agire in giudizio per vedersi riconosciute le differenze retributive dovute si riduce, per questi lavoratori, a un classico “diritto di carta”.
Analoghe rilessioni possono essere fatte sulla possibilità per i braccianti
di proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è
loro dovuto, ino alla concorrenza del debito che il committente ha verso
l’appaltatore (art. 1676, c.c.), con riferimento al solo credito maturato dal lavoratore in forza dell’attività svolta per l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio oggetto dell’appalto (Cass. civile, sez. lavoro, n. 23489/2010).
L’azione diretta esercitata dal dipendente dell’appaltatore contro il committente è pienamente distinta e autonoma rispetto a quella che, eventualmente,
venga proposta nei confronti dell’appaltatore. La responsabilità solidale del
committente e dell’appaltatore o del subappaltatore per i crediti da lavoro
(art. 29, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276) si aggiunge e amplia la tutela in
favore dei lavoratori rispetto a quella stabilita dal Codice civile: nei 24 mesi
dalla data di cessazione dell’appalto, ci si può rivalere nei confronti dell’impresa appaltante se i propri diritti economici e previdenziali sono stati negati.
La differenza tra le due tutele riguarda la responsabilità del committente, che
nel Codice civile è subordinata alla sussistenza di un debito del committente nei confronti dell’appaltatore, mentre ai ini dell’art. 29 d.lgs. del 2003 il
committente rimane obbligato lo stesso, anche se ha già saldato il corrispet-
64
IL CASO DEI LAVORATORI IMMIGRATI NELLA VITIVINICOLTURA SENESE
tivo dovuto all’appaltatore. L’effettiva garanzia della responsabilità solidale
in materia di appalti dà luogo, tuttavia, a una notevole serie di questioni
processuali, complicate dalle innumerevoli modiiche introdotte nel corso
del tempo dal legislatore nella disciplina, ora complessivamente rivolta a salvaguardare più il committente che a tutelare il lavoratore, nonostante questi
sia oggi sempre più utilizzato nell’ambito di processi produttivi frammentati
che prevedono il frequente ricorso a catene di appalti e subappalti (Riverso
2014).
5. Conclusioni
I casi di sfruttamento dei braccianti immigrati regolari nella vitivinicoltura senese meritano attenzione per vari motivi. I meccanismi messi in atto
modiicano l’immagine comune dei migranti sfruttati che si è affermata in
Italia negli ultimi vent’anni. A essere coinvolti sono infatti lavoratori titolari
di permesso di soggiorno, che presentano una situazione di apparente legalità in materia di contratti, buste paga e reclutamento, nel quadro di appalti
formalmente regolari conclusi tra società contoterziste e aziende agricole per
l’esecuzione di alcune fasi della produzione. Queste situazioni segnalano
l’emergere di un nuovo modello di relazioni socio-economiche destinato a
diffondersi, in cui lo sfruttamento viene giuridiicato ed esternalizzato per
adattarsi a un contesto caratterizzato da un più diffuso rispetto delle regole
e da maggiori controlli, oltre che per adeguarsi alla mutata composizione
del lavoro migrante. Le imprese evitano così il rischio delle sanzioni penali
e civili derivanti dalle irregolarità di fatto delle relazioni lavorative, ma continuano comunque a sfruttare il lavoro per far fronte alle oscillazioni del
mercato e per abbattere drasticamente i costi, rispondendo così alle pressioni
al ribasso sui prezzi esercitate dalla grande distribuzione organizzata e dalla
accresciuta competizione globale.
A fronte dei limiti dell’attuale quadro normativo, si tratta di iniziare a
esplorare categorie, forme di contrasto, strumenti di tutela e politiche economiche e sociali alternative in grado di rispondere adeguatamente a questo
nuovo scenario, ponendosi l’obiettivo di intervenire sulle cause strutturali
dello sfruttamento e della vulnerabilità dei braccianti immigrati, sempre più
spesso regolari. Il caso di Siena, come tanti altri in cui emerge una mutata
composizione e organizzazione del lavoro migrante in Italia, offre innanzitutto l’opportunità di rivedere criticamente il nesso tra la rappresentazione
tradizionale del lavoratore immigrato sfruttato come clandestino, inserito in
un’economia arretrata, sommersa quando non criminale, e un approccio politico articolato sui due registri complementari della repressione penale e
dell’intervento umanitario.
Provando a contrastare e prevenire il fenomeno dello sfruttamento,
l’approccio unicamente repressivo ha mostrato in questi anni i propri limiti,
65
LEGGI, MIGRANTI E CAPORALI
a partire dallo scarso utilizzo delle norme penali via via introdotte nell’ordinamento e dalla lacunosità dei controlli nei luoghi di lavoro. D’altro lato,
l’approccio umanitario ha spesso spoliticizzato il problema, rimuovendone
le cause e le responsabilità ultime dello sfruttamento, da rinvenire nelle
costrizioni sistemiche del mercato del lavoro e della iliera produttiva squilibrata a svantaggio dei piccoli e medi produttori e dei braccianti. Entrambi
gli approcci hanno inito per ridurre il migrante a “vittima”, facendo derivare il suo diritto ad avere diritti da questa condizione di passività e non
dal fatto di essere un lavoratore come gli altri. A essere stati rimossi sono,
paradossalmente, proprio i bisogni fondamentali dei braccianti, la cui soddisfazione costituisce la prima strategia preventiva contro lo sfruttamento
in generale, a partire dal bisogno di lavoro e reddito regolari e adeguati, di
alloggi decenti, di servizi pubblici accessibili, di protezione sociale, di autonomia del permesso di soggiorno rispetto all’arbitrio dei datori di lavoro, di
informazione e organizzazione politico-sindacale, di sostegno nell’accesso
alla giustizia.
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