FONDAZIONE GIOVANNI XXIII
Comitato scientifico
Claus Arnold
J.W. Goethe Universität, Frankfürt am Main (Deutschland)
Francesco Citti
Università degli Studi di Bologna (Italia)
Philippe Marie Berthe Raoul Denis, OP
School of Religion and Theology, University of KwaZulu-Natal, Pietermaritzburg (South Africa)
Frédéric Gugelot
Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris (France)
Gaetano Lettieri
Sapienza, Università di Roma (Italia)
Yan Li Ren
Chinese Academy of Social Sciences, University of Beijing (China)
Jürgen Miethke
Heilderberg Universität (Deutschland)
John Pollard
University of Cambridge (United Kingdom)
Violet Soen
KU Leuven (België)
Christoph Theobald
Centre Sèvres de Paris (France)
Roberto card. Tucci
TEMI E TESTI
118
STORIA, MEDICINA E DIRITTO
NEI TRATTATI
DI PROSPERO LAMBERTINI
BENEDETTO XIV
a cura di
MARIA TERESA FATTORI
ROMA 2013
EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA
Prima edizione: luglio 2013
ISBN 978-88-6372-501-8
Il volume è pubblicato con il sostegno del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
e della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena
È vietata la copia, anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuata
Ogni riproduzione che eviti l’acquisto di un libro minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza
Tutti i diritti riservati
EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA
00165 Roma - via delle Fornaci, 24
Tel. 06.39.67.03.07 - Fax 06.39.67.12.50
e-mail:
[email protected]
www.storiaeletteratura.it
MARINA CAFFIERO
BENEDETTO XIV E I PROBLEMI DELLE CONVERSIONI
DI EBREI E MUSULMANI E DEI MATRIMONI MISTI
Gli studi recenti hanno posto in evidenza l’interesse e il coinvolgimento
di Prospero Lambertini, sia prima sia durante il pontificato, per la tematica
delle conversioni interreligiose e per i delicati problemi da esse suscitati. È
un dato però poco considerato dagli storici, eppure essenziale per ricostruirne la fisionomia e le scelte successive in qualità di pontefice, che Lambertini
abbia ricoperto per anni l’incarico di consultore della congregazione romana
del Sant’Uffizio. Egli non fu certo il solo futuro pontefice ad occupare nel
Settecento tale carica che, nel secolo precedente, nel Seicento, era stato rivestita, nel corso della loro carriera in curia, da ben cinque papi su sette. Come
ha ben notato Andrea Del Col, pur allentandosi, il rapporto innegabile tra
ruolo di ex inquisitori e acquisizione del soglio pontificio continuò anche nel
primo Settecento in cui si può constatare che due papi su quattro avevano
ricoperto in precedenza incarichi inquisitoriali: si tratta di Clemente XI Albani e di Clemente XII Corsini, entrambi cardinali membri sia del Sant’Uffizio, sia dell’Indice1. A metà e nel secondo Settecento, i papi che erano stati
consultori furono solo due, Benedetto XIV – Lambertini (1740-1758) e Clemente XIV-Ganganelli (1769-1774). Quest’ultimo, dopo aver svolto il ruolo
di consultore, restò poi anche come cardinale in entrambe le congregazioni.
Delle attività in Sant’Uffizio di questi due pontefici restano ampie tracce
nell’Archivio della congregazione della Dottrina della Fede che conserva la
documentazione dell’Inquisizione romana2.
Prospero Lambertini fu consultore della congregazione del Sant’Uffizio
a partire dal 17 maggio 1713, agli inizi della sua carriera curiale, ricoprendo un ruolo prestigioso a cui molti aspiravano. Alcuni dei suoi «voti», oggi
conservati nell’archivio, ma ancora poco noti e studiati, ci consentono di
A. Del Col, L’Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Milano, Mondadori, 2006, p. 621.
Sui due pontefici si vedano le «voci», entrambe redatte da M. Rosa, Enciclopedia
dei papi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, vol. III, pp. 446-461 e 475-492
rispettivamente.
1
2
156
MARINA CAFFIERO
conoscere le posizioni dottrinali del futuro Benedetto XIV molto prima che
queste si esprimessero formalmente attraverso la legislazione da lui emanata.
In particolare, siamo informati delle sue convinzioni in materia ebraica, in
quanto Lambertini si occupò appunto in qualità di consultore di numerosi
problemi delicati concernenti gli ebrei, i convertiti e i loro rapporti con i cristiani3. La progressiva e crescente ingerenza, tra Sei e Settecento, dell’Inquisizione romana in tutte le materie, spirituali e materiali, che concernevano gli
ebrei ci conferma quanto la questione ebraica assumesse una connotazione
sovralocale, relativa alle strategie della Chiesa universale e alle scelte ideologiche generali del papato, nonché alle relazioni più o meno conflittuali
via via stabilite con gli Stati italiani4. Tanto più, dunque, va notato come,
all’interno dell’assolutamente peculiare rapporto esistente tra il papato e gli
ebrei, emerga con forza quanto il ruolo attivo svolto nella congregazione, in
qualità di consultori, da alcuni futuri pontefici per la loro competenza sul
piano della giurisprudenza in materia ebraica, abbia influito sulla legislazione e sulla politica successivamente attuate in questo ambito, una volta che
essi fossero ascesi al soglio papale: evidenti sono, in questo senso, appunto
i casi di Benedetto XIV e di Clemente XIV. Ma per Lambertini il discorso
è sicuramente più incisivo dal momento che la decretazione lambertiniana
fece giurisprudenza per i due secoli successivi, fino al Novecento.
1. Battesimi.
L’esperienza di Lambertini consultore e la sua specializzazione in materia
ebraica, espressa in «voti» da me analizzati in altre sedi5, confluirono certa3
M. Caffiero, Benedetto XIV e gli ebrei. Un parere del consultore Lambertini al Sant’Uffizio,
in Religione, cultura e politica nell’Europa dell’età moderna. Studi offerti a M. Rosa dagli amici, a
cura di C. Ossola – M. Verga – M. A. Visceglia, Firenze, Olschki, 2003, pp. 379-390. Il parere
di Lambertini era stato chiesto e redatto nel settembre del 1716 e concerneva un caso preciso
che poneva il problema scottante del diritto di eredità mantenuto o meno dagli ebrei convertiti
rispetto alla famiglia di origine. Esso si trova in ACDF, Sant’Officio, Stanza Storica, AA2-c,
«Volumen Haebreorum incipiens ab anno 1713 usque 1716», ff. n.n.; la risposta del futuro pontefice era totalmente favorevole alle pretese del neofita. Un altro parere di Lambertini relativo a
questioni ebraiche si trova nello stesso fascicolo. Ho analizzato infine un «voto» sulla applicabilità agli ebrei del privilegio della spontanea comparitio nel mio Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra eresia, libri proibiti e stregoneria, Torino, Einaudi, 2012, pp. 138-143. Non tutti i pareri
del consultore Lambertini sono menzionati nell’«Index consultorum» conservato in ACDF.
4
Su questi temi rinvio ai miei studi: Tra Chiesa e Stato. Gli ebrei italiani dall’età dei Lumi
agli anni della Rivoluzione, in M. Caffiero, Religione e modernità in Italia (secoli XVII-XIX),
Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000, pp. 193-227 e Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi, Roma, Viella, 20092.
5
Vd. supra nota 3.
I PROBLEMI DELLE CONVERSIONI DI EBREI E MUSULMANI E DEI MATRIMONI MISTI
157
mente nelle due epistole volte a dirimere le questioni relative ai battesimi di
ebrei, pubblicate in italiano e in latino: nel 1747, la lettera Postremo mense,
che affrontava il tema del battesimo degli ebrei infanti o adulti, clandestini o
legittimi e, nel 1751, la Probe te meminisse, sull’offerta dei bambini ebrei da
parte di parenti convertiti. Su queste due lettere benedettine non mi soffermo, avendone ampiamente trattato nel mio volume Battesimi forzati6. È da
notare però che la discussione e le conclusioni sui battesimi dei bambini ebrei
svolte nelle due epistole avvenivano in parallelo e in coincidenza cronologica con la trattazione e la decisione su una analoga questione delicata: quella
relativa ai bambini musulmani offerti al battesimo da madri cristiane maritate o conviventi con turchi nelle aree, anche molto vicine geograficamente,
divenute terre di occupazione islamica (Albania, Bosnia, Serbia, Macedonia,
Bulgaria ecc., dove peraltro la situazione religiosa era complicata anche dalla presenza di greci ortodossi)7. Benedetto XIV fu infatti assai attivo anche
sul fronte dei rapporti tra cristiani e musulmani. Sul problema scottante dei
battesimi impartibili o meno ai bimbi musulmani nati da unioni miste – in
genere donne cristiane unite a musulmani – i pontefici si erano espressi varie
volte nel corso del tempo, con decreti culminati nelle epistole settecentesche
di Clemente XI e appunto di Benedetto XIV, a metà secolo. Quest’ultimo, in
un’enciclica del 1744, la Inter omnigenas, indirizzata ai vescovi, a tutto il clero
e al popolo del Regno di Serbia e delle regioni confinanti sottoposte «durissimo Turcarum jugo» – di cui tratterò più avanti –, espresse le sue preoccupazioni di fronte alla possibilità e al pericolo di perversione della fede quando
i bambini battezzati non potessero essere sottratti ai genitori infedeli (anche
nel caso in cui lo fosse stato uno solo), come invece avveniva regolarmente per
i bambini ebrei battezzati più o meno clandestinamente, che immediatamente
e senza problemi, potevano essere strappati alle famiglie. Di conseguenza,
non era lecito battezzare i bambini turchi, anche se lo stesso pontefice apriva
uno spiraglio per l’attività dei missionari in quanto consentiva di impartire
il sacramento ai figli di donne cristiane e di turchi solamente in presenza
di pericolo di vita del bambino e dietro ammonizione alla madre che, se il
figlio fosse sopravvissuto, dovesse ad ogni costo educarlo alla fede cristiana8.
Cfr. Caffiero, Battesimi forzati, pp. 73-110.
Rinvio per i temi relativi ai battesimi di bambini musulmani in terre di missione al
mio Per una storia comparativa: l’Inquisizione romana nei confronti di ebrei e musulmani in
età moderna, in A dieci anni dall’apertura dell’archivio della Congregazione per la dottrina
della fede: storia e archivi dell’Inquisizione (Roma, 21-23 febbraio 2008), Roma, Accademia
dei Lincei, 2011, pp. 497-518.
8
Il riferimento è all’enciclica del 1744, diretta al clero e al popolo del regno di Serbia e
delle altre regioni confinanti, da me consultata nell’edizione Inter omnigenas, Romae, apud
6
7
158
MARINA CAFFIERO
Tuttavia, per altri e diversi casi il pontefice – abbandonando ogni rigore e
condizione e adottando una elasticità che implicava l’accettazione larga dei
battesimi – asseriva alla fine dell’enciclica di non voler «dare alcuna regola
generale». Lasciava così liberi i sacerdoti e i missionari, che generalmente ne
approfittavano, di conferire il battesimo se lo ritenevano opportuno anche nei
casi in cui non fosse affatto certo che i piccoli turchi sarebbero stati educati
cristianamente9. Dunque, temperava alquanto la severità espressa nella normativa, come certo non avveniva per gli ebrei.
Non sembra casuale il fatto che queste decisioni più «blande» sui figli dei
musulmani appaiano ribadite soltanto tre anni dopo l’enciclica del 1744 in
un documento ufficiale diretto principalmente a dirimere le questioni delle
conversioni e dei battesimi degli ebrei. Infatti, la parte della Inter omnigenas
sui bambini turchi battezzati venne replicata nella lettera apostolica Postremo mense del 1747, che riguardava principalmente i bambini ebrei battezzati
invitis parentibus e i loro battesimi più o meno coatti. Nella lettera del 174710,
si ricordava il caso frequente delle offerte che gli «infedeli» in genere e i musulmani in particolare facevano dei loro figli affinché fossero battezzati per
motivi di superstizione (per liberarli dagli spiriti maligni, dal fetore o dalle
malattie)11. Il pontefice ricordava un decreto del 6 settembre 1625, emesso
dalla congregazione della Universale Inquisizione, in cui si rispondeva ai
dubbi esposti dal vescovo di Antivari (ora Bar), in Albania, che chiedeva se
si potesse impartire per finta («ficte») il battesimo ai figli dei genitori turchi
che lo chiedevano solo per motivi materiali e «superstiziosi». La decisione di
Benedetto XIV era stata negativa e ferma, anche di fronte al pericolo di vita
corso dai sacerdoti cattolici che avessero rifiutato: il battesimo era «iaunia
Sacramentorum, ac protestatio Fidei, nec ullo modo fingi potest»12. Ne’, d’altro canto, era lecito battezzare i bimbi se si sapeva che sarebbero restati nelle
mani dei genitori infedeli, con il grave «pericolo della perversione», a meno
S. Mariam Majorem die 2 Februarii Anno Domini 1744, p. 304 (anche MBR t. I, pp. 302308). È degno di nota che questa parte della enciclica venisse richiamata e ripetuta nella
lettera Postremo mense del 1747, dello stesso pontefice, che riguardava però principalmente
gli ebrei. Vd. infra.
9
MBR t. I, pp. 302-308.
10
Lettera della santità di Nostro Signore Benedetto Papa XIV a Monsignor arcivescovo di
Tarso Vicegerente sopra il Battesimo degli Ebrei o infanti o adulti, Roma, 28 febbraio 1747 (anche MBR t. II, pp. 186-237). Sulla lettera cfr. Caffiero, Battesimi forzati, pp. 76-99.
11
Postremo mense, p. 10, ricordava il caso di un padre gesuita medico che, chiamato in
casa di un maomettano per curarne la figlioletta gravemente ammalata, l’aveva battezzata
di nascosto del padre: il fatto fu approvato perché la bimba dopo pochi mesi era morta, ma
battezzata.
12
Ibidem, p. 24.
I PROBLEMI DELLE CONVERSIONI DI EBREI E MUSULMANI E DEI MATRIMONI MISTI
159
che non si fosse stati in presenza del pericolo di morte del bambino. Lo stessa
regola valeva per le donne cattoliche viventi in concubinato con i turchi «sotto il nome di preteso matrimonio», che chiedevano che i figli nati dall’unione fossero battezzati13. Su questo punto, richiamando esplicitamente la Inter
omnigenas del 1744, Benedetto XIV ribadiva che il battesimo non poteva
essere conferito se non in caso di pericolo di vita, e solo dopo aver ammonito
le madri che se il bimbo fosse sopravvissuto dovevano impegnarsi a educarlo
secondo la religione cristiana. Tuttavia, come si è detto sopra, per tutti gli
altri casi, temperando ogni rigore, egli non offriva alcuna regola generale, ma
invitava solo i sacerdoti a considerare le circostanze e a poi decidere secondo
la loro coscienza. E certamente ciò non valeva per i bimbi ebrei.
Tornerò subito sulla Inter omnigenas, importante ma ancora poco nota e
poco citata epistola di Benedetto XIV, ma quel che ora è da sottolineare è
che i temi dei battesimi degli infedeli, ebrei o musulmani che fossero, erano
affrontati insieme, in unico documento. E questo dato, se è naturale essendo
considerati entrambi infedeli, non è però ancora stato notato, specialmente
quanto alle sue conseguenze differenti: comportamenti più rigidi verso gli
ebrei, più malleabili verso i musulmani. Certamente, la situazione di ebrei
e musulmani non era comparabile perché se era facile, in Italia o a Roma o
ovunque nei territori cattolici, togliere ai genitori ebrei il figlio battezzato o
da far battezzare, la stessa cosa era assai più difficile in terre lontane e sotto
dominio turco. Il risultato dottrinale tuttavia era il medesimo: ribadire la
liceità di conferire il sacramento ogni volta che fosse possibile in nome del
favor fidei, cioè del principio della superiorità della fede su ogni tipo di legislazione e sul diritto naturale14.
2. Dare il nome.
Altra questione scottante, relativa ai battesimi e alle conversioni, era
quella del nome, elemento determinante e performativo della nuova identità
cristiana. Cambiare fede significava cambiare anche uno degli elementi identitari più significativi, il nome, appunto. Il battesimo come fondatore della
nuova identità la segnalava concretamente con la cerimonia del cambiamento di denominazione15. Il rito del battesimo si traduceva dunque in mezzo di
Ibidem, p. 26.
Su questo principio dottrinale e sull’uso fattone in materia di battesimi rinvio a Battesimi forzati.
15
Per una discussione recente sul battesimo rinvio a Salvezza delle anime disciplina dei
corpi. Un seminario sulla storia del battesimo, a cura di A. Prosperi, Pisa, Ed. della Normale,
2006. Cfr. anche il mio Battesimi forzati.
13
14
160
MARINA CAFFIERO
trasformazione radicale della soggettività individuale della persona non solo
con l’assunzione di una nuova fede, di un nuovo status, di una nuova vita in
una nuova comunità, ma anche con il mutamento di questo indicatore fondamentale dell’identità individuale. D’altro canto, l’obbligo di cambiare nome
dopo la conversione era molto stretto, specialmente per i musulmani, ed era
imposto da vari decreti pontifici. Quelli di ben due papi, Clemente XI e Benedetto XIV, emanati in riferimento a conversioni in terre ottomane, erano
stati chiari, stabilendo «che non si dovessero imporre nomi de’ Turchi nel
battesimo a fanciulli o adulti, proibendosi a’ Cristiani per qualunque motivo
di prendere ed assumere tali nomi; contenendo in vero l’uso di questi nomi
bugia in cosa gravissima, ed una virtuale negazione della fede»16.
Clemente XI aveva approvato le decisioni del sinodo nazionale di Albania
del 1703, che aveva stabilito che non si potessero imporre, nel battesimo di
fanciulli o adulti, nomi maomettani allo scopo di dissimulare la conversione e per nascondere alle autorità islamiche di aver apostatato, dissimulando
per motivi sia economici (evitare tasse più alte) che di sicurezza. Tali norme
sul nome vennero confermate ancora 50 anni dopo, a dimostrazione di quali
continuassero a essere invece gli usi comuni, da Benedetto XIV nel 1744, con
la lettera Inter omnigenas, e soprattutto, il 14 agosto 1754, con la severissima
epistola Ne Christifideles sub Turcarum ditione versantes. Il nome turco, ribadiva il pontefice, comportava infatti una menzogna gravissima che conteneva
una virtuale negazione della Fede, con massima ingiuria verso Dio e scandalo
per il prossimo («quae mendacium in re gravissima continet, et virtualem
Fidei negationem, maxima cum Dei injuria, Proximique scandalo»)17. Inoltre,
tale pratica costituiva un’occasione offerta ai musulmani per accusare tutti i
cristiani di essere ipocriti e ingannatori («deceptores») e in quanto tali meritevoli di persecuzione18. I sacerdoti e i missionari, rimproverava il papa, erano
invece spesso conniventi e indulgenti verso tale «detestabile simulazione» del
nome turco e ammettevano senza problemi i peccatori perfino ai sacramenti.
Non si poteva tollerare che dei cristiani «turpis lucri causa» tenessero una
Cfr. F. Rovira Bonet, Armatura de’ forti ovvero memorie spettanti agl’infedeli ebrei che
siano, o turchi utili alli catecumeni, alli neofiti, ed altri cristiani…., In Roma, nella stamperia di
S. Michele a Ripa presso Paolo Giunchi, 1794, p. 554. Le encicliche del 1744, Inter omnigenas, e
del 1754, Ne Christifideles, indirizzate ai vescovi locali da Benedetto XIV, assai attivo sul fronte
dei rapporti tra cristiani e musulmani, erano volte a risolvere diversi dubbi sui battesimi in terre a preponderanza musulmana, nello specifico in Albania e Serbia. Sulle due epistole vd. infra.
17
Cfr. la lettera di Benedetto XIV, indirizzata agli arcivescovi, vescovi parroci e missionari di Albania, Ne Christifideles sub Turcarum ditione versantes, ad occultandam Christianae
Religionis professionem, Mahumatana Nomina sibi imponant, iisque se compellari patiantur,
Romae, apud S. Mariam Majorem die prima Augusti, 1754, anche MBR t. IV, pp. 221-223.
18
Ibidem, pp. 221-223.
16
I PROBLEMI DELLE CONVERSIONI DI EBREI E MUSULMANI E DEI MATRIMONI MISTI
161
cosa sulla bocca e un’altra nel cuore («aliud in ore, aliud in corde»). A coloro
che non obbedivano, i sacerdoti e i missionari dovevano a ogni costo applicare le pene previste dai documenti papali precedenti, e cioè l’esclusione dai
sacramenti, in vita, e dai suffragi dopo la morte. E se i maomettani divenuti
cristiani, o i lori figli, temevano di non poter essere costanti nella nuova fede
e di incorrere in persecuzioni una volta abbandonato il nome turco, dovevano
essere sollecitati a fuggire e a rifugiarsi in terre cristiane.
3. Atteggiamenti diversi verso ebrei e musulmani.
Ma, oltre alla questione del nome, moltissimi altri punti di religione erano scottanti, in quelle terre di missione, e andavano affrontati. Essi dimostrano sia quanto fosse diversa la posizione rigida e intransigente romana da
quella assunta localmente dal clero cattolico, sia quanto stesse a cuore il tema
della dissimulazione della fede. Nel 1744, lo stesso Benedetto, sempre nella
Inter omnigenas, lamentava il fatto che i cristiani di quelle terre, sebbene in
parte scusati dal fatto di essere sottoposti a gravissime vessazioni, alle crudeli
persecuzioni e all’odio degli infedeli e degli scismatici, si abbandonassero
però ad abusi e infrazioni della retta dottrina. In particolare, egli citava la
«turpe» pratica della dissimulazione della fede con cui essi occultavano per
motivi di opportunità la loro professione religiosa e simulavano l’appartenenza all’Islam fino al punto di sottoporsi alla circoncisione, di assumere
appunto nomi turchi, di frequentare le moschee, di lavorare nei giorni festivi
per i cristiani, di profanare i giorni di digiuno alimentandosi di cibi proibiti,
di seppellire i propri morti nei cimiteri turchi (cimiteri misti) e con riti maomettani19. Il pontefice richiamava dunque severamente fedeli disinvolti e
pastori troppo tolleranti al rispetto della norma e fissava pene rigorose, che
giungevano fino all’esclusione dai sacramenti, per tali comportamenti «illeciti e empi». Ciò non toglie che le pratiche restassero ben diverse da quelle
auspicate, come per altro anche il testo papale ci conferma proprio con le sue
denunce di comportamenti riprovevoli. Nello stesso tempo, le denunce del
papa prospettavano un quadro di scambi, di commistioni e di conoscenze rituali reciproche tra i due mondi – cristiano e maomettano – che configura ai
nostri occhi sia un livello notevole di adattamento e di interazione, sia anche
un’evoluzione in senso sempre meno rigoroso dei comportamenti del clero
locale rispetto alle direttive centrali. Così, nonostante le due encicliche benedettine, gli abusi dei nomi turchi continuarono per molto tempo e ancora nel
1806 i vescovi albanesi denunciavano, ma nello stesso tempo anche scusava-
19
Inter omnigenas, MBR t. I, pp. 304-308: p. 303.
162
MARINA CAFFIERO
no, l’uso dei nomi «turcheschi», dovuto o a «pecoraggine», cioè a mancanza
di coraggio, o a «malizia», per motivi economici e fiscali: ciò implicava, essi
asserivano, una «doppia pratica» religiosa – cattolica e maomettana – che
però in taluni casi, a loro parere, andava tollerata20. Certamente, tale atteggiamento morbido non veniva seguito invece per gli ebrei convertiti.
Come si verificò per le epistole volte a dirimere le questioni relative ai battesimi di ebrei, anche l’enciclica del 1744 Inter omnigenas divenne un punto
di riferimento normativo per i battesimi dei musulmani. Essa conferma così la
centralità della figura di Benedetto XIV nella storia delle strategie missionarie
e conversionistiche e, se si riflette ai suoi interventi anche sui riti cinesi e sui
riti malabarici, si deve concludere che il tema e il problema dei battesimi sono
quelli che unificano e collegano molte delle sue prese di posizione dottrinali,
di cui quei temi sono al centro. Quanto la decretazione benedettina abbia influenzato e determinato le decisioni successive in materia battesimale e anche
il differente comportamento verso ebrei e musulmani è mostrato da tutte le
discussioni svoltesi successivamente in Sant’Uffizio, di cui si conservano in
archivio diversi esempi. Degno di nota è un dibattito di circa trent’anni dopo
la lettera benedettina. Nel febbraio del 1777 fu trasmesso dalla congregazione
di Propaganda Fide al Sant’Uffizio un dubbio esposto da un missionario di
Tripoli. Questi, «con zelo eccessivo» – commentavano i consultori –, chiedeva
di poter battezzare segretamente e contro la volontà dei genitori, e dunque
invitis parentibus, i figli maomettani di due infedeli allo scopo di salvarli e si
appellava appunto alla Inter omnigenas di Benedetto XIV che, a parere del
missionario, aveva tacitamente tollerato tale pratica di battesimi indiscriminati là dove ammetteva che le madri cristiane sposate a turchi potessero offrire
alla fede cattolica i propri figli. Venne chiesto un «voto» all’autorevolissimo
consultore Giacinto Sigismondo Gerdil, illustre teologo barnabita che era stato appena nominato vescovo nel marzo di quell’anno e che subito dopo, nel
dicembre 1777, sarebbe divenuto cardinale21. Il suo parere, che fu approvato
dai cardinali della congregazione del Sant’Uffizio, era molto lungo e articolato e fino ad oggi sconosciuto. Esso si richiamava in toto alla enciclica di
Benedetto XIV del 1744 e anche alle sue costituzioni successive, come la Postremo mense del 1747 (che, come si è detto, trattava principalmente di ebrei).
ACDF, Sant’Officio, Dubia Varia (1795-1809), fasc. VIII, 1806, Albania. Sulla questione abbiamo un lungo e dettagliato parere del consultore mons. Marco Negri assai severo e
negativo, ma respinto dagli altri consultori, più benevoli e più vicini alle sollecitazioni dei vescovi locali che decretarono che i cristiani che usavano nomi turchi «non esse inquietandos».
21
Su di lui vd. P. Stella, Appunti per una biografi di Giacinto Sigismondo Gerdil, «Barnabiti Studi», XVIII (2001), pp. 7-28. Ma tutto il fascicolo è dedicato alla figura di Gerdil
nel bicentenario della morte. Su questo suo «voto» tornerò, più diffusamente, in altra sede.
20
I PROBLEMI DELLE CONVERSIONI DI EBREI E MUSULMANI E DEI MATRIMONI MISTI
163
Ricalcando e riportando con precisione le varie decisioni assunte nel tempo
dal pontefice, Gerdil distingueva nettamente i casi dei battesimi clandestini
di bambini maomettani, impartiti contro la volontà dei genitori, nei quali non
si doveva procedere al battesimo sia per non ledere i diritti di patria potestas –
ciò che invece si poteva fare con gli ebrei - sia per il pericolo di «perversione»,
che derivava dalla coabitazione con i genitori restati entrambi «infedeli», dai
casi delle offerte delle madri cristiane maritate con turchi. In questi ultimi,
invece, era possibile impartire il sacramento senza offesa della patria potestà
e senza pericolo di perversione poiché la madre cristiana avrebbe sicuramente
educato religiosamente il figlio battezzato22. Concludeva, Gerdil, con parole
di apprezzamento dello zelo, sia pure «eccessivo» che aveva spinto il missionario a fare la sua richiesta, ma asserendo anche che «lo zelo deve essere
subordinato alle regole prescritte dalla S. Sede, la quale siccome è Maestra
infallibile di verità, così è anche guida sicurissima della vera pietà»23. In tal
modo, il «voto» poneva con chiarezza il problema di come fosse complesso
estendere le indicazioni permissive, sul piano del conferimento del battesimo,
emanate da Benedetto XIV per gli ebrei e i loro figli agli altri infedeli viventi
in terra di missione, le cui condizioni erano del tutto diverse, numericamente,
politicamente e militarmente. Ciò che si poteva fare ai genitori ebrei non si
poteva fare ai genitori turchi. L’esortazione sinite parvulos di Marco 10, 13-16,
e Matteo 19, 13-15, invocata dai missionari per battezzare indiscriminatamente i bambini, in quei luoghi e in quelle circostanze non poteva essere eseguita
prescindendo totalmente dalle regole, come invece avveniva per gli ebrei.
Ben diversi erano dunque sia i comportamenti che la percezione nei confronti di ebrei e islamici, come ad esempio si rileva nelle pene comminate
nei casi di reiterazione del battesimo e di apostasia oppure di dissimulazione
della nuova fede cristiana24. In un’ottica comparativa tra conversioni di ebrei
e musulmani, emerge subito dalla documentazione il dato significativo di
una minore rigidezza e rigore, da parte delle autorità cattoliche, nei confronti degli aderenti all’Islam, soprattutto quanto ai controlli dei loro passaggi
di religione, rispetto ai comportamenti tenuti verso gli ebrei25. Ma a questo
ACDF, Sant’Officio, Dubia de Baptismo, vol. VIII (1777-1784), fasc. II.
Ibidem.
24
Su questa tematica della diversità di comportamenti verso ebrei e islamici rinvio a
quanto ho scritto in Juifs et musulmans à Rome à l’époque moderne entre résistance, assimilation et mutation identitaire. Essai de comparaison, in Les Musulmans dans l’histoire de
l’Europe, édité par J. Dakhlia – B. Vincent, Paris, Albin Michel, 2011, pp. 593-609.
25
È l’idea condivisa, quanto alla Spagna, anche da B. Vincent, L’Inquisition et l’Islam, in
L’inquisizione. Atti del simposio internazionale Città del Vaticano, 29-31 ottobre 1998, a cura
di A. Borromeo, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2003, pp. 493-503.
22
23
164
MARINA CAFFIERO
minore rigore corrispondeva anche una importanza inferiore attribuita dalle gerarchie ecclesiastiche alla conversione dei musulmani, che si rifletteva,
ad esempio, anche nel comportamento indulgente tenuto nei confronti dei
cristiani rinnegati26. Il ruolo dottrinale e simbolico della conversione degli
ebrei era assai più rilevante.
4. Matrimoni misti «alla turchesca».
La problematica matrimoniale costituisce uno dei punti nodali di queste differenti strategie adottate da Roma verso ebrei e musulmani. Innanzi
tutto, va notata la possibilità di ammettere convivenze e matrimoni misti tra
cattolici e maomettani, tutt’altro che infrequenti, con le conseguenti prospettive di coniugazione di culture diverse e di appartenenze multiple che
tali unioni tra coniugi di differente fede sottendono. Tale possibilità era
del tutto esclusa per gli ebrei, anche sul piano della semplice convivenza: il
commercio carnale tra ebrei e cristiani era considerato un pesante delitto
che per qualche giurista, come il famoso Prospero Farinacci, era passibile
perfino di pena capitale27. Naturalmente, la situazione in Europa orientale
e nei Balcani era molto complicata, quanto ai cattolici presenti in loco e alle
loro missioni, dal fatto che si trattava della parte dell’Europa che da molto
tempo, e ben prima della conquista turca, era scismatica ortodossa. Il che
significava una possibilità duplice, per i cristiani, di matrimoni misti e di
rituali in comune: con islamici, ma anche con cristiani ortodossi, davanti
al prete turco o davanti al prete scismatico. Una situazione complessa e intricata, dunque, che presenta particolare interesse per lo storico sia quanto
ai quesiti che sollevava che per le soluzioni adottate, nello stesso tempo di
natura politica e religiosa, sia anche relativamente all’attualità: si pensi ai
problemi posti oggi dall’immigrazione e alle posizioni espresse dalle autorità cattoliche sui matrimoni misti, anche in relazione agli impedimenti legati
alla disparitas cultus.
Ho ampiamente trattato altrove di questi matrimoni misti «alla turchesca» in età moderna e dei problemi che sollevavano28. In particolare, ho
considerato le questioni relative alla conversione al cattolicesimo di uno dei
26
Sulla maggiore rilevanza della conversione degli ebrei, cfr. il mio Battesimi forzati,
p. 22.
ACDF, Sant’Officio, Stanza Storica, AA1-a, si trova una discussione seicentesca sul
commercio carnale tra ebrei e cristiane relativamente alle competenze giurisdizionali in materia, inquisitoriali o vescovili. Su questo tema vd. il mio Legami pericolosi. Ebrei e cristiani,
pp. 215-266.
28
Rinvio al mio Per una storia comparativa, p. 508 in cui discuto tali questioni
matrimoniali.
27
I PROBLEMI DELLE CONVERSIONI DI EBREI E MUSULMANI E DEI MATRIMONI MISTI
165
due coniugi «infedeli» che, a rigore, doveva essere seguita dalla rottura del
legame poiché secondo la dottrina canonistica e il cosiddetto «privilegio
paolino»29, in vigore ancora oggi, il matrimonio tra battezzato e non battezzato poteva essere sciolto. E ho esaminato anche, più in generale, le problematiche relative alla regolazione della convivenza e delle relazioni sessuali
tra cristiani cattolici/e e maomettani/e. Tale regolazione avveniva spesso
attraverso la concessione di un matrimonio che, a determinate condizioni,
veniva ritenuto valido, perfino se contratto davanti a ‘preti’ o giudici turchi,
nonostante l’impedimento della disparità di culto che costituiva impedimento al sacramento, ma non al contratto civile e naturale. Nel caso invece di
battesimo di entrambi i coniugi infedeli, il loro matrimonio, come peraltro
avveniva per gli ebrei convertiti e per i convertiti in genere, restava indissolubile e diventava senz’altro sacramento («efficitur sacramentum sine alio novo
consenso»)30. In questi casi, anche le dispense per parentela di grado stretto
erano concesse con una certa liberalità.
Ma qui interessa tornare a Benedetto XIV e alle sue posizioni in proposito. È ben noto, ma in realtà è ancora poco studiato, quanto la legislazione
matrimoniale in generale stesse a cuore a papa Lambertini, che provvide a
emanare numerose bolle, epistole e decreti in proposito: dalle costituzioni
Ad Apostolicae del 1741 e Ad tuas del 1748, sui gradi di consanguineità o affinità, alla Redditae nobis del 1744, sul concubinato e i figli nati da esso, alla
Dei miseratione del 1741, sui giudici nelle cause matrimoniali, alla Satis vobis
compertum, ancora del 1741, sulle nozze segrete, e così via. Si tratta di una
legislazione che varrebbe la pena di diventare specifico oggetto di studio.
29
Sul privilegio paolino, mi limito a A. Bride, Privilège paulin, «Dictionnaire de Théologie Catholique», vol. XIII, Paris, Letouzeny et Ané, 1936, coll. 400-415 e P. Palazzini, Privilegio paolino, «Enciclopedia Cattolica», vol. X, Città del Vaticano, Ente per l’Enciclopedia
cattolica e per il libro cattolico, 1953, coll. 49-56. Il privilegio paolino (nel nuovo Codice di
diritto canonico ai can. 1143-1150), riguarda le cause di scioglimento del vincolo matrimoniale ed è così denominato perché trae origine da una lettera di s. Paolo: I Cor 7, 12-16. In base
ad esso, i matrimoni legittimi sono sciolti, in favore della fede (il favor fidei, che, nel dubbio,
prevale sul favor matrimonii) quando uno dei coniugi, sposati senza essere battezzati, successivamente riceva il battesimo e l’altro coniuge si rifiuti di continuare la convivenza o non
voglia coabitare pacificamente «senza offesa al Creatore» (sine iniuria Creatoris). In tal caso
la «parte» battezzata, interpellata l’altra «parte» per conoscere la sua eventuale disponibilità
al battesimo o almeno alla pacifica convivenza, ove l’esito sia negativo, acquista il diritto di
contrarre un nuovo matrimonio con altra parte cattolica in favorem fidei, ed, eventualmente,
per grave causa e con dispensa del vescovo, anche con una parte non cattolica, battezzata o
non.
30
ACDF, Sant’Officio, Stanza Storica, M5-h, ff. n.n., responso positivo alla richiesta di
due coniugi turchi, entrambi convertiti a Roma nel 1698, di continuare nel loro matrimonio.
166
MARINA CAFFIERO
Quel che va notato è che normativa matrimoniale e normativa conversionistica del pontefice giurista si intrecciavano profondamente; di conseguenza,
numerosi furono i suoi interventi sui matrimonio misti, interconfessionali
e interreligiosi (Matrimonia del 1741; Redditae sunt del 1746; Magnae nobis
del 1748, sui matrimoni tra riformati e cattolici; Postremo mense del 1747, su
sponsali e unioni degli ebrei convertiti; Apostolici ministerii munus del 1747,
sul privilegio paolino da applicare agli ebrei convertiti e sul ghet, il libello di
ripudio usato dagli ebrei nel divorzio). Soprattutto, nell’importante costituzione Singulari nobis, del 1749, Benedetto XIV aveva puntualizzato il dettato
tridentino e ribadito che la disparità di culto tra cristiano e infedele, cioè
fra un battezzato e un non battezzato, ad esempio, un maomettano, rendeva
il matrimonio nullo e invalido, mentre quello tra due battezzati di cui uno
cattolico e l’altro eretico era illecito, ma valido. Si potrebbe anche notare che
tutto questo sistema normativo sul matrimonio risulta molto compatto nel
tempo poiché data intorno agli anni quaranta del Settecento.
Come si è visto, sia l’enciclica Inter omnigenas che la Ne Christifideles sub
Turcarum ditione versantes intendevano regolare le gravi questioni sacramentali e le forme di dissimulazione della fede cristiana che sorgevano in quelle
terre lontane come conseguenza della complessa convivenza di turchi e cattolici. E oltre che di battesimi si occupavano di matrimoni. Particolarmente
interessante quanto ai matrimoni misti cosiddetti «alla turchesca» è ancora
la Inter omnigenas del 1744, indirizzata ai vescovi, a tutto il clero e al popolo
del regno di Serbia e delle regioni confinanti sottoposte al dominio turco per
regolarne i comportamenti e le decisioni relative ai fedeli cristiani, originari
o convertiti, che infrangevano per timore o per opportunismo le norme della
dottrina cattolica. Abbiamo visto come l’enciclica trattasse la questione del
battesimo dei bambini nati da unioni miste e quella della dissimulazione
dell’identità cristiana attraverso il problema cruciale del nome. Vediamo ora
come trattava i problemi dei matrimoni, a cui era concesso largo spazio.
La questione principale dibattuta relativamente al matrimonio o al concubinato tra donne cattoliche e maomettani – si tratta sempre di questo tipo
di unione, quasi mai del contrario – era se tali donne potessero essere ammesse ai sacramenti: a rigore delle norme, la risposta doveva essere negativa
perché le cattoliche vivevano in concubinato e in peccato mortale. Ma dopo
la metà del Seicento le cose cominciano a cambiare e lo stesso dubbio venne
risolto negativamente soltanto se si trattava di unione con turco originario,
ma positivamente se il marito era un rinnegato31.
Ibidem, Dubia de Matrimonio, vol. I (1603-1722), fasc. XXVII. Si tratta di un dubbio
proveniente dall’Albania nel 1696.
31
I PROBLEMI DELLE CONVERSIONI DI EBREI E MUSULMANI E DEI MATRIMONI MISTI
167
A dimostrazione della rilevanza della questione, data la quantità di unioni miste che persistevano in quei territori, dubbi e interrogazioni continuarono a giungere numerose al Sant’Uffizio per tutto il Seicento e il Settecento,
e anche nell’Ottocento. Si trattava di quesiti volti soprattutto a trovare una
soluzione per situazioni particolarmente pesanti, come «l’infelice condizione» delle donne cristiane costrette con la violenza ad unirsi ai turchi. E
che di una sorta di matrimonio si trattasse appare anche dal fondo stesso
dell’Archivio della congregazione della Dottrina della Fede, il fondo Dubia
de Matrimonio, i cui fascicoletti portano il titolo eloquente di Matrimonia
cum Turcis32. Nelle discussioni qui raccolte era palese il contrasto tra una linea morbida, caldeggiata dai missionari e appoggiata da molti consultori del
Sant’Uffizio, e quella più rigorosa dei pontefici. Questa seconda linea, che
seguiva la decisione presa da Paolo V nel corso di una riunione della congregazione del giugno 161333, era stata ribadita anche da Benedetto XIV più di
un secolo dopo. Nella Inter omnigenas, infatti, le regole erano molto severe.
Innanzi tutto, il documento decretava l’esclusione dai sacramenti delle donne cattoliche che si erano unite a turchi, «nuptiarum nomine», anche con la
forza e che occultavano la propria fede, in quanto vivevano in illecito concubinato con infedeli e dunque in peccato mortale; ribadiva il divieto di battezzarne i figli se non dietro garanzia da parte delle madri di poterli educare
cristianamente; riaffermava la necessità dell’applicazione rigida del matrimonio tridentino anche in quelle regioni, nonostante che si potesse dubitare con
validi motivi che i decreti del concilio fossero mai stati pubblicati e diffusi
in quei luoghi; confermava, infine, la proibizione per il coniuge cristiano,
abbandonato dall’altro coniuge per un turco o una turca, di risposarsi fino
alla morte di questo. Il papa imponeva ai vescovi e ai missionari locali di non
concedere alcuna dispensa matrimoniale senza il permesso della Santa Sede
e, in particolare, di non concederle affatto ai cristiani occulti, dissimulanti la
propria fede e agli aspiranti coniugi che fossero parenti di grado stretto: ciò
che invece avveniva regolarmente, come dimostrano sia i documenti da me
analizzati che i casi di cui ancora si discuteva ben dieci anni dopo l’enciclica
benedettina, come se nulla fosse avvenuto. Nulli, dunque, andavano considerati i matrimoni contratti davanti al solo giudice turco, il Kadì, che tutt’al più
avevano solo un valore civile e naturale, nulli quelli clandestini che davano
vita a convivenze che in realtà erano «illeciti concubinati» che escludevano
dai sacramenti; ancor più vietati e nulli quelli contratti con rito maomettano,
Vd. il mio Per una storia comparativa, p. 508.
La decisione di Paolo V, presa in Sant’Uffizio il 27 giugno 1613, venne citata come un
precedente di quella benedettina nel «voto» di Giuseppe Simone Assemani del 1756, cfr. infra.
32
33
168
MARINA CAFFIERO
magari davanti al prete turco, il Koggià, che implicavano invocazioni a Maometto o altri tipi di «superstizioni» e di conseguenza un’adesione implicita
all’Islam: «minime permittimus […] nullam Mahumetis invocationem, aut
aliud quidcumque superstitionis genus includat»34.
L’enciclica benedettina si concludeva con un’accorata esortazione sia ai
fedeli, affinché si comportassero con coraggio, sia ai vescovi, che venivano
incitati a osservare le leggi della Chiesa senza paura. Dunque, nessuna concessione veniva fatta dal papa, che accusava tanto il clero locale, e nemmeno
troppo velatamente, di eccessiva permissività e di lassismo, quanto i fedeli di
comportamenti illeciti.
Ma, o che avessero paura o che fossero semplicemente più realisti, il clero
locale e gli stessi fedeli si regolavano ben diversamente da quanto era imposto da Roma e si permettevano pratiche sociali e culturali molto disinvolte,
riflesse abbondantemente dalle domande e dai dubbi presentati dai missionari al sacro tribunale della fede. E spesso anche il Sant’Uffizio non poteva
che prendere atto dello scarto esistente tra quanto imponevano le regole e le
pratiche in uso in quei paesi, nonché dei pericoli di persecuzione che correvano i fedeli se si fossero attenuti rigidamente alle leggi imposte da Roma.
Proprio negli anni del pontificato benedettino, che sembrava aver fissato definitivamente le norme a cui obbedire, dubbi e richieste di licenze per tali
matrimoni, provenienti dalle terre di missione, andarono moltiplicandosi35.
E, nella stessa congregazione dell’Inquisizione, di cui era a capo proprio il
pontefice, le risposte date ai vari dubbi proposti in materia matrimoniale
erano più accomodanti rispetto alla pura norma e le dispense per tali unione
venivano concesse con facilità. I consultori nei loro «voti» seguivano una
precisa strategia retorica e argomentativa: esponevano dapprima diligentemente quanto contemplava la netta decretazione papale, per poi aprire alle
più ampie concessioni.
È appunto quanto avvenne nel 1756, mentre era ancora in corso il pontificato benedettino, a seguito di vari dubbi e interrogativi presentati ancora
dall’arcivescovo di Antivari relativi a donne cattoliche unite con la forza a
turchi, ma che chiedevano di essere ammesse ai sacramenti. Il consultore, in
questo caso il ben noto orientalista e ebraista Giuseppe Simone Assemani,
primo custode della Biblioteca Vaticana36, ricordava innanzi tutto la norma:
Inter omnigenas, p. 304.
Ne ho trattato con vari esempi in L’Inquisizione romana e i Musulmani: le questioni dei
matrimoni misti, «Cromohs», XIV (2009), pp. 1-10.
36
Il consultore Giuseppe Simone Assemani illustre orientalista e ebraista, dal 1739 primo custode della Biblioteca Vaticana, si occupò anche di questioni relative agli ebrei e in
particolare della censura dei loro libri: cfr. Caffiero, Legami pericolosi, p. 47.
34
35
I PROBLEMI DELLE CONVERSIONI DI EBREI E MUSULMANI E DEI MATRIMONI MISTI
169
il matrimonio tra un battezzato (cattolico o anche eretico) e un non battezzato era nullo e invalido «propter disparitatem cultus», ciò che costituiva un
impedimento dirimente, però non «de jure naturale aut divino», ma secondo
il diritto ecclesiastico, vigente nella Chiesa da secoli e che come tale aveva
acquisito forza di legge. Citava anche, proprio in presenza di colui che l’aveva
promulgata, la Inter omnigenas, riportando il punto in cui l’enciclica dichiarava che tali donne vivevano «in illicito concubinatu cum infidelibus» e di
conseguenza i sacramenti dovevano essere loro negati. Ma, improvvisamente,
l’argomentazione prendeva una ben diversa piega, rovesciandosi di segno di
fronte alla pesante concretezza delle situazioni individuali e specifiche che induceva a tenere in considerazione altri argomenti, capaci di scavalcare la norma e più preoccupati di considerare usi, tradizioni, costumi e anche eventuali
pericoli per i cristiani. Infatti, Assemani dichiarava che bisognava «compatire
lo stato miserabile delle povere donne oratrici», alle quali si poteva concedere
il beneficio della dispensa papale per la disparità di culto, sciogliendole dalla
scomunica; tuttavia, le donne dovevano assumere diversi impegni, quali quelli di assicurare di evitare ogni pericolo di «perversione» della propria fede, di
tentare di convertire il coniuge infedele e di educare i figli cristianamente37.
Il risultato finale della lunga argomentazione, modellata sullo schema retorico della scolastica tradizionale – esposizione di tesi, antitesi e conclusione
–, era perciò sorprendente. La strategia favorevole alle donne – e al loro
ruolo cristianizzatore – aveva la meglio sulle innegabili e ben note difficoltà
pratiche che impedivano che esse davvero potessero vivere cristianamente e spingeva a concedere facilmente le dispense, favorendo un sistema di
unioni che avrebbe dovuto invece essere scoraggiato. Il parere di Assemani
non ebbe la maggioranza in congregazione; ma è significativo che, nonostante quanto avremmo potuto attenderci da Benedetto XIV, dopo le sue dure
encicliche, la risoluzione del pontefice fosse per un Dilata (18 marzo 1756),
cioè per un rinvio, seguito dall’ordine che la congregazione di Propaganda
Fide prendesse l’iniziativa di scrivere una lettera ufficiale ai diversi vescovi di
Albania e Macedonia per ottenere ulteriori e più precise informazioni in materia di matrimoni misti. Lo stesso pontefice temperava dunque il suo rigore.
Al di là dell’esito finale della vicenda, su cui tornerò più approfonditamente in altra sede dato il suo rilevante interesse38, risulta evidente la mancata applicazione, in quei particolari territori di missione, dell’enciclica di
37
ACDF, Sant’Officio, Dubia de Matrimonio, vol. IV ( 1755-1758), Antivari, ff. 381r-386v:
parere di Assemani sulle tre diverse questioni proposte dall’arcivescovo di Antivari.
38
Essa diede infatti luogo a una vera e propria inchiesta sui matrimoni misti nei territori
di dominio turco, con un relativo fitto questionario da sottoporre ai vescovi locali. Una anticipazione nel mio L’Inquisizione romana e i Musulmani, p. 5.
170
MARINA CAFFIERO
Benedetto XIV di soli pochi anni prima e le oscillazioni e le perplessità
all’interno della stessa congregazione del Sant’Uffizio, soprattutto da parte di chi, come Assemani, conosceva bene i paesi in questione, essendovisi
recato spesso, e aveva potuto osservare direttamente la complessità della situazione. Ma risulta anche il forte timore che tanto le donne unite a turchi
quanto i genitori che le avevano date in spose apostatassero nel caso fossero
loro rifiutati i sacramenti. Era tale timore a determinare un addolcimento
progressivo della rigorosa normativa benedettina e una interpretazione sempre più «benignista» della stessa nel corso del tempo39. In conclusione, la
dialettica tra centro e periferie e la stessa oscillazione di Benedetto XIV tra
rigore e indulgenza, con l’esito blando delle denunce, rivelano una realtà
assai articolata. Nonostante i divieti severi ribaditi più volte dai pontefici e
ripetuti da papa Lambertini, soprattutto nella epistola del 1754 in cui sostanzialmente rimproverava vescovi e clero di eccessivo lassismo, le domande e
i dubbi dei missionari, così dettagliati e descrittivi di situazioni specifiche,
oltre a rivelare atteggiamenti locali assai larghi e concessivi nel caso delle
unioni miste tra cattolici e musulmani, rinviano a realtà e a comportamenti
ben diversi da quelli imposti dai decreti coevi e si riferiscono a un universo
di pratiche sociali e culturali molto disinvolte da parte dei cristiani viventi
nei territori sotto dominio turco. Sono storie che raccontano vicende di adattamento reciproco tra i due mondi, di convivenza di usi e dottrine diverse,
forse non solo risalenti a paure e conflitti, ma anche a un tessuto di contaminazioni reciproche, di relazioni vere, di legami talvolta addirittura affettivi,
che passavano attraverso la pratica integrativa e interattiva dei «matrimoni
alla turchesca». E ricordare questo al giorno d’oggi non è forse del tutto inutile. Ma questa è ancora un’altra storia.
Cfr. il caso discusso nel 1806, ACDF, Sant’Offizio, Dubia Varia (1795-1809), fasc. VIII,
1806, Albania, «voto» del consultore mons. Marco Negri, ff. n.n.
39