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18-06-2013
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Estratto
COSTANTINO I
ENCICLOPEDIA COSTANTINIANA
SULLA FIGURA E L’IMMAGINE
DELL’IMPERATORE
DEL COSIDDETTO EDITTO DI MILANO
313-2013
volume primo
isbn 978-88-12-00171-2
ISTITVTO DELLA
ENCICLOPEDIA ITALIANA
FONDATA DA GIOVANNI TRECCANI
ROMA 2013
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Emanuele Castelli
La Chiesa di Roma prima e dopo Costantino
Da Vittore (189-199) a Liberio (352-366)
Sommario: Da Vittore a Fabiano: sessant’anni epocali (189-250). Alla ricerca dell’unità – Le scelte di
Callisto – Consolidamento e sviluppo sino a Fabiano
– Un bilancio alla metà del III secolo ▭ Dall’episcopato di Cornelio alla persecuzione di Diocleziano.
Lo scisma di Novaziano – La Chiesa dei puri: un problema discusso a Nicea – La posizione del vescovo di
Roma nella seconda metà del III secolo – Anni difficili (304-311) ▭ Da Milziade a Liberio: il nuovo
rapporto con il potere imperiale. La svolta costantiniana vista dal suburbio di Roma – Milziade, Silvestro e i primi Reichskonzilien – Da Giulio a Liberio: il primato del vescovo di Roma tra Oriente e
Occidente
«Io sono in grado di mostrare i trofei degli apostoli: se vai infatti sul colle Vaticano o sulla via
Ostiense, troverai i trofei [τϱόπαια] di coloro che
fondarono questa Chiesa». Così Gaio, agli inizi del
III secolo, informa dell’esistenza dei più importanti ‘luoghi della memoria’ della Chiesa di Roma,
dedicati rispettivamente agli apostoli Pietro e Paolo1.
Le indagini archeologiche compiute a partire dagli
anni Quaranta del secolo scorso hanno portato alla
luce il τϱόπαιον di Pietro sul Vaticano: si tratta di
una piccola edicola funeraria, realizzata in suo onore
poco dopo la metà del II secolo. Proprio su questa
memoria funeraria l’imperatore Costantino avrebbe
promosso l’erezione del più imponente e spettacolare edificio del tempo per la comunità cristiana di
Roma: la basilica vaticana. Una più piccola basilica fu da lui fatta erigere in onore di Paolo sulla via
Ostiense.
Le donazioni e in generale le concessioni di
Costantino alla Chiesa di Roma hanno ricevuto in
passato giudizi contrastanti e, com’è noto, si è ripetutamente affermato che con quei doni l’imperatore intendesse asservire al suo volere il vescovo
romano. In realtà, la politica inaugurata da Costantino e proseguita dai suoi successori non si tradusse
in semplici vantaggi per la sedes apostolica. Dal pontificato di Milziade (311-314) a quello di Liberio
(352-366) le relazioni fra il trono imperiale e la cattedra romana furono complesse e perfino conflittuali. I vescovi di Roma non vollero presentarsi ai
concili convocati dagli imperatori e si limitarono
piuttosto a farsi rappresentare; d’altra parte, il rapporto con l’autorità imperiale degenerò quando uno
dei figli di Costantino, Costanzo II, ordinò di deportare papa Liberio in Tracia, perché quest’ultimo
resisteva al suo volere. Per comprendere la storia
della Chiesa di Roma di questo periodo così denso
di eventi e di problematiche, è tuttavia indispensabile iniziare il discorso da circa centovent’anni prima
della svolta costantiniana, quando la comunità
romana sperimentò radicali trasformazioni, i cui
esiti l’avrebbero caratterizzata per lungo tempo a
venire2.
Da Vittore a Fabiano: sessant’anni epocali
(189-250)
Alla ricerca dell’unità
Intorno alla metà del II secolo la Chiesa di Roma
era governata da un collegio di presbiteri3 e si presentava nel suo insieme come una comunità poco
coesa, poiché convivevano al suo interno gruppi
diversi e in parte divisi da usi liturgici e posizioni
dottrinali4. Tale scarso grado di coesione fu superato solo a partire dagli ultimi decenni del II secolo
con il definitivo passaggio a una nuova forma di
governo: l’episcopato monarchico5. Come già da
tempo in altre Chiese orientali, ora anche a Roma
la direzione della comunità si accentrava nelle mani
di una sola figura, il vescovo, al quale erano sottoposti il collegio dei presbiteri, l’ordine dei diaconi
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EMANUELE CASTELLI
e tutti i restanti fedeli. Il passaggio a questa nuova
organizzazione gerarchica costituì il presupposto
fondamentale per poter superare vari motivi di divisione e costituire una comunità realmente solida e
compatta. Era l’inizio di una serie di trasformazioni
epocali6.
Vittore, secondo l’interpretazione oggi prevalente tra gli studiosi, fu il primo vescovo effettivamente monarchico della Chiesa di Roma7. Era questi uomo ecclesiastico di origine africana e di lingua
latina8, il che corrispondeva bene a un altro cambiamento in atto in quel momento: sino ad allora
infatti la comunità romana era stata dominata dalla
presenza di orientali parlanti greco9; a partire dalla
fine del II secolo la componente latina crebbe invece
rapidamente fino a imporsi in pochi decenni come
maggioritaria10.
Alcune questioni liturgiche e dottrinali offrirono a Vittore l’occasione di affermare per la prima
volta con decisione e fermezza le sue prerogative di
vescovo della comunità e far valere allo stesso tempo
il prestigio della Chiesa di Roma come mai fino ad
allora era avvenuto. Da tempo infatti si discuteva
tra i cristiani sulla data di celebrazione della Pasqua. Alcuni, soprattutto in Asia Minore, seguivano
l’uso giudaico celebrando la festa – indipendentemente dal giorno della settimana in cui questa cadeva
– in coincidenza con il quattordicesimo giorno del
mese ebraico di Nisan e venivano perciò chiamati
quartodecimani. Tuttavia la maggioranza dei cristiani preferiva celebrare la Pasqua nel giorno in
cui Cristo era risorto e posticipava la festa alla domenica successiva al 14 di Nisan11. Il contrasto tra le
due tradizioni si manifestò proprio a Roma intorno
alla metà del II secolo. Qui si celebrava la Pasqua
di domenica, ma i credenti venuti dall’Asia Minore
erano di osservanza quartodecimana e non intendevano abbandonare il loro uso. Invano si cercò
una soluzione, qualche tempo dopo, tra il vescovo
di Smirne Policarpo, giunto nella capitale come
rappresentante degli asiatici quartodecimani, e Aniceto, che era allora a capo della comunità romana12.
I due non trovarono un accordo, ma si lasciarono
comunque in pace13. Il conflitto si acuì verso la fine
del II secolo. Per risolvere la questione si tennero
questa volta alcuni sinodi – per quanto si conosce
tra i primi della storia del cristianesimo14 – in
Oriente e in Occidente, nella Palestina, Ponto,
Osroene, a Roma, a Corinto, in Gallia15. Tutti concordarono con la celebrazione domenicale a eccezione di molte comunità dell’Asia Minore. Policrate di Efeso, a nome dell’episcopato asiatico
quartodecimano, scrisse quindi a Vittore rivendicando l’antichità e la legittimità della propria tradizione anche con un esplicito richiamo alla memoria
degli apostoli Filippo e Giovanni. Vittore fu tuttavia irremovibile. Di fronte alla determinazione dei
quartodecimani, comunicò per iscritto alle altre
Chiese la sua decisione di scomunicarli16. Intanto,
a Roma, coloro che celebravano il 14 di Nisan sembra che avessero già costituito un gruppo scismatico capeggiato da un certo Blasto17.
La condanna pronunciata da Vittore suscitò
d’altra parte forti critiche. Ireneo di Lione e altri
episcopi, sebbene concordi con la celebrazione
domenicale, espressero apertamente la loro disapprovazione inviando Vittore a preservare la pace18.
Non è dato sapere se tali tentativi ebbero allora successo19. La decisione di Vittore di scomunicare i
quartodecimani segnò comunque un punto di svolta
per la storia della Chiesa di Roma, in quanto tale
presa di posizione era innovativa sotto due aspetti:
da un lato si rompeva nettamente con una lunga
prassi di tolleranza praticata a Roma verso i cristiani di altra tradizione liturgica; dall’altro, per la
prima volta il vescovo di Roma si riconosceva la
forza e l’autorità di condannare altre Chiese che
non si adeguavano alla sua richiesta20.
L’energico Vittore si era dunque mostrato determinato, come mai sino a quel momento, a superare
le divisioni della comunità romana dovute alle
diverse prassi liturgiche e a imporre, laddove possibile, una linea comune. Ma egli si mostrò non
meno deciso ad affrontare questioni teologiche di
fronte alla pluralità di dottrine a quel tempo liberamente professate a Roma. I cristiani avevano ereditato dal giudaismo la fede nell’unicità di Dio.
Tuttavia essi riconoscevano anche la divinità di Cristo, il Figlio di Dio. Si poneva perciò l’esigenza di
spiegare in che modo Padre e Figlio costituissero
allo stesso tempo il solo e unico Dio. Furono avanzate nel corso del II secolo varie soluzioni. Alcuni
dottori cristiani (in particolare gli apologeti Giustino, Taziano, Teofilo, Atenagora; più tardi Ippolito, Tertulliano e altri pensatori ancora)21 affermarono sulla base di alcuni passi delle Scritture che
il Cristo Figlio di Dio fosse il Logos divino (cioè l’eterna sapienza e parola divina) emanato e generato
dal Padre come Figlio (cioè come entità divina personalmente sussistente), per provvedere alla creazione, al governo e alla redenzione del mondo. Tale
dottrina, chiamata dagli studiosi moderni ‘teologia
del Logos’ e professata da Giustino a Roma intorno
alla metà del II secolo22, riconosceva dunque la divinità del Figlio considerandolo come l’intermediario
tra il Padre e il mondo, ma lo poneva, di conseguenza,
in posizione subordinata rispetto al Padre. Il pericolo insito in tale elaborazione dottrinale era evidente: si rischiava di mettere in discussione il dato
di fede dell’unicità di Dio, cioè della ‘monarchia’
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LA ChIESA DI ROMA PRIMA E DOPO COSTANTINO
divina, come allora si diceva23. Due altre dottrine
furono perciò proposte per risolvere il problema.
La prima (chiamata dagli studiosi oggi anche con
il termine ‘adozionismo’) fu diffusa a Roma al tempo
di Vittore da Teodoto di Bisanzio. Questi riteneva
che Gesù fosse stato un semplice uomo, nato dalla
vergine Maria per volere del Padre e vissuto in particolare santità: al battesimo nel fiume Giordano
era disceso su di lui lo Spirito Santo e a partire da
quel momento aveva iniziato a operare miracoli24.
La seconda dottrina – il ‘modalismo’ – fu elaborata
invece nella seconda metà del II secolo a opera di
Noeto di Smirne. Per salvaguardare il dogma dell’unicità di Dio, ma allo stesso tempo anche la piena
divinità di Cristo, Noeto riteneva che Padre e Figlio
fossero solo modi di apparire e di manifestarsi del
solo e unico Dio. Di conseguenza, si poteva dire
che era stato proprio il Padre in figura di Figlio a
patire sulla croce (da ciò la dottrina prese in Occidente il nome di ‘patripassianismo’)25. Noeto fu più
volte condannato in Asia Minore26, ma un suo discepolo di nome Epigono venne a Roma a propagandarne le idee al tempo di Vittore o al più tardi
durante i primi anni di episcopato del successore
Zefirino (199-217)27.
Tra la fine del II e gli inizi del III secolo erano
dunque in concorrenza a Roma almeno tre diverse
dottrine per spiegare il rapporto tra il Padre e il
Figlio: la teologia del Logos, l’adozionismo, il modalismo. Stando alla documentazione disponibile (I
Clem. e il Pastore di Erma), la Chiesa romana era
stata nel suo insieme piuttosto reticente su tale problema e non aveva espresso, almeno sino alla metà
del II secolo, una posizione chiaramente definita.
Evidentemente per timore di mettere in discussione
l’unità divina, non aveva voluto definire Cristo tout
court come Dio, ma nemmeno l’aveva ridotto a semplice uomo28. Perciò, quando alla fine del II secolo
Teodoto di Bisanzio osò affermare la pura e semplice umanità di Cristo, Vittore non esitò a scomunicare lui e i suoi seguaci. Questi ultimi costituirono così un gruppo a sé stante, di cui è possibile
seguire le tracce per qualche decennio. Al tempo
del vescovo Zefirino, due discepoli di Teodoto di
Bisanzio, Asclepiade e Teodoto detto il banchiere,
persuasero un confessore di nome Natalio a divenire vescovo della loro comunità. Natalio sulle prime
accettò; ma poi, pentitosi, chiese perdono a Zefirino e fu da quest’ultimo riammesso nella Chiesa
romana. Invece altri teodoziani, come Artemone,
Ermofilo, Apolloniade, rimasero delle loro idee e
furono ancora attivi a Roma fino circa alla metà del
III secolo29.
Vittore aveva così affrontato alcuni gravi motivi
di divisione e di dissenso all’interno della comunità
e in particolare, sul fronte teologico, la dottrina adozionista. Durante il suo episcopato fu probabilmente
pronunciata anche la condanna dei montanisti, contro i quali da tempo si erano levate voci di dissenso
nella comunità romana30. Compito dei successori di
Vittore fu invece una presa di posizione rispetto alla
teologia del Logos e al modalismo.
Con l’episcopato di Zefirino (199-217) fu proprio il modalismo a diffondersi con un certo successo a Roma. La dottrina era allora propagandata
da Cleomene, discepolo del già menzionato Epigono, e da altri esponenti, come Sabellio. Invece il
maggiore rappresentante della teologia del Logos
era in quel momento il cosiddetto Autore della Refutatio. Questo scrittore, del quale non si conosce con
sicurezza il nome, è stato negli studi passati identificato a torto con Ippolito, un esegeta di origine
orientale vissuto più o meno nello stesso periodo.
L’Autore della Refutatio fu in realtà attivo nei primi
decenni del III secolo a Roma, fece parte probabilmente del clero romano prima di esserne espulso
e compose vari scritti, tra i quali una confutazione
delle eresie, oggi usualmente indicata con il titolo
di Refutatio31. Quest’ultima opera rappresenta la
fondamentale fonte d’informazione per la storia
della Chiesa di Roma durante l’episcopato di Zefirino e del suo successore Callisto. Dai suoi contenuti si apprende quanto segue. Zefirino, forse per
reazione ai teodoziani o forse perché non era così
determinato come Vittore, non volle prendere posizione nei riguardi dei modalisti e lasciò che la loro
dottrina si diffondesse tra i credenti di Roma. Egli
tuttavia non la condivideva in toto, come è possibile ricavare da alcune sue pubbliche affermazioni:
«Io conosco un solo Dio Cristo Gesù ed eccetto lui
nessun altro che sia nato e abbia patito»32, egli diceva;
ma in altra occasione rilevava: «non è morto il Padre
ma il Figlio»33. Così Zefirino durante il suo episcopato cercava di salvaguardare allo stesso tempo l’unità di Dio e la distinzione tra Padre e Figlio, senza
procedere a nuove condanne e quindi senza prendere decisa posizione sulle dottrine allora in concorrenza nella capitale.
Alla sua morte fu scelto Callisto a succedergli
sulla cattedra romana34. Callisto ricoprì la carica di
vescovo solo cinque anni (217-222), fino a quando
fu assassinato durante i disordini scoppiati nell’Urbe a seguito dell’uccisione dell’imperatore Eliogabalo (222). Il suo breve episcopato fu però di rilevanza eccezionale, perché egli contribuì non meno
di Vittore a organizzare la Chiesa di Roma e ad affrontare vari problemi della comunità. Quando era ancora
al fianco di Zefirino come collaboratore e responsabile del cimitero sulla via Appia – la cosiddetta Area
I di Callisto, il primo possedimento della comunità
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EMANUELE CASTELLI
cristiana di Roma a noi noto –, il giovane Callisto
aveva evitato di prendere aperta posizione sui dibattiti dottrinali allora in corso. Eletto vescovo, ritenne
invece giunto il momento di intervenire decisamente nella controversia. Scomunicò il monarchiano Sabellio perché «pensatore non ortodosso»
e lo stesso fece con l’Autore della Refutatio accusandolo di «diteismo»35. Contestualmente Callisto
espresse la posizione ufficiale della Chiesa romana,
una posizione sostanzialmente monarchiana moderata: egli da un lato sottolineava l’unità e l’unicità
di Dio valorizzando il concetto di un solo Spirito
divino, in cui si identificano Padre e Figlio; dall’altro riconosceva una distinzione tra lo stesso Padre
e il Figlio al momento dell’incarnazione, e occupava così una posizione quasi di compromesso tra
le varie correnti teologiche36.
Come visto sopra, al tempo di Vittore i quartodecimani e i discepoli di Teodoto di Bisanzio in
rottura con il vescovo di Roma avevano costituito
comunità autonome. Fecero ora lo stesso i modalisti e l’Autore della Refutatio con i suoi seguaci.
Quasi nulla è noto delle sorti del primo gruppo.
Sappiamo invece che l’Autore della Refutatio si
pose a capo di una comunità scismatica e la organizzò secondo austeri e ambiziosi principi. Egli concepiva la Chiesa come una comunità di puri e di
conseguenza non esitava ad allontanare dalla sua
comunità coloro che fossero caduti in peccato grave.
Inoltre si considerava pleno iure successore degli
apostoli e maestro della dottrina cristiana. Perciò
compose alcuni scritti in greco, al fine di ammaestrare i popoli – come egli enfaticamente afferma –
nella conoscenza della verità37. Con una tale azione
di governo l’Autore si proponeva due obiettivi: dare
prova delle sue qualità di vescovo e mostrare a tutti
quale comunità fosse veramente degna di chiamarsi
a Roma «Chiesa cattolica»38. Tale ambiziosa e rigorosa politica ecclesiastica lo condusse però in breve
tempo al fallimento. Egli lo ammette obtorto collo
in vari passi della Refutatio: molti dei suoi iniziali
seguaci tornavano nella comunità del legittimo successore di Zefirino, Callisto; quest’ultimo concedeva il perdono anche a chi cadeva in peccato
grave39. In effetti il dissidio tra i due personaggi
non era solo teologico.
Le scelte di Callisto
A differenza dell’Autore della Refutatio, Callisto era convinto che nessuno avesse il diritto di
giudicare il proprio fratello e allontanarlo dalla
comunità. La Chiesa doveva accogliere e assistere
chiunque, specialmente i più deboli e bisognosi
nel corpo e nello spirito. Il vescovo giustificava la
sua visione citando puntualmente le Scritture: a
Dio solo spetta il giudizio sulla coscienza dei fedeli,
quando egli verrà a separare il grano dalla zizzania (Mt 13,29-30). Alla Chiesa è riservato invece
il compito di accogliere tutti gli uomini, anche se
cadono in peccato grave, e salvarli dalla tempesta
del mondo senza fare discriminazioni. In questo
senso per Callisto la comunità ecclesiale era prefigurata nelle Scritture dall’arca di Noè (Gen 6,1920 e 7,2-3): come all’interno dell’arca erano entrati
animali puri e impuri per salvarsi, così doveva
avvenire nella Chiesa40. Tali affermazioni apparivano a un rigorista come l’Autore della Refutatio, che per tale ragione le riferisce nel libro IX
della sua opera, come il fondamento di una politica ecclesiastica priva di scrupoli. In realtà Callisto se ne servì per affrontare vari problemi sociali
e organizzativi della sua comunità. Alle donne
romane di alto rango sociale, che certamente lo
appoggiavano e contribuivano con i loro beni al
sostegno economico di tanti fratelli, egli permise
di convivere con i loro servi – narra sconcertato
l’Autore della Refutatio41 – e di considerarli come
loro mariti senza dichiarare l’unione di fronte alla
legge romana, il che avrebbe evidentemente comportato la perdita del loro status sociale e degli
annessi benefici. Callisto accolse inoltre, come
detto, tutti i fratelli, perdonando loro anche i peccati gravi.
Era questa una visione ‘universalistica’ della
Chiesa42, condivisa e tradotta in pratica in molti
modi da lui stesso e più in generale dal clero
romano dei primi decenni del III secolo. Ne è
prova la grande innovazione comunitaria di questo periodo, i primi cimiteri della Chiesa di Roma.
Infatti, su una linea di uguaglianza e di fraternità
tutti i membri della comunità romana – in quanto
appartenenti a un unico e per quanto possibile
coeso gruppo – trovano ora la stessa comune sepoltura nelle catacombe, a prescindere dal loro status sociale, dalla loro ricchezza o dai loro meriti
in vita: il povero e il ricco, lo schiavo, il liberto,
l’uomo libero43. Uniformità e uguaglianza si registrano inoltre nelle caratteristiche strutturali di
questi cimiteri, costituiti da gallerie con tombe (a
loculi) tutte uguali tra loro, e nella prassi epigrafica utilizzata per le sepolture. Nella maggioranza
delle iscrizioni è infatti menzionato solo il nome
personale del defunto (talora accompagnato da
brevi formule di augurio, come in pace), affinché
egli possa essere riconosciuto nella sua pura e semplice individualità. Si rinuncia invece a indicare,
com’era prassi nell’epigrafia romana del tempo,
la sua posizione sociale e i suoi meriti in vita44:
tutti sono uguali in quanto membri di una stessa
famiglia in Cristo45.
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LA ChIESA DI ROMA PRIMA E DOPO COSTANTINO
La politica ecclesiastica a carattere comunitario, avviata già sotto i vescovi Vittore e Zefirino ma
ora portata avanti con massimo vigore dal loro successore Callisto, trasformava in quegli anni così la
Chiesa di Roma per farne una comunità coesa, ben
organizzata e capace di un’efficace e sistematica
attività di assistenza verso tutti i fratelli.
Consolidamento e sviluppo sino a Fabiano
A Callisto successero Urbano (222-230), poi
Ponziano (230-235). Del primo nulla di davvero
significativo si conosce, mentre dovrebbe collocarsi
al tempo del secondo l’assenso della Chiesa romana
alla condanna di Origene già pronunciata dal
vescovo di Alessandria, Demetrio. D’altra parte,
proprio in questi anni fu portata a compimento,
all’interno dell’Area I di Callisto, la realizzazione
di una piccola regione cimiteriale, questa volta specificamente riservata alla sepoltura dei vescovi della
comunità romana (la cosiddetta cripta dei papi). Si
esprimeva e si rappresentava così anche nella sfera
funeraria l’importanza dell’episcopato monarchico
impostosi a Roma nel precedente periodo.
Nella frammentarietà delle notizie disponibili si
può peraltro affermare che sotto i pontificati di
Urbano e Ponziano la Chiesa romana conobbe una
tranquilla fase di sviluppo, anche grazie alle positive
relazioni con il potere imperiale. Severo Alessandro
(222-235) e altri membri della sua famiglia ebbero,
com’è noto, un atteggiamento più che tollerante verso
i cristiani. Significativo è tra l’altro il fatto che uno
dei più stretti collaboratori dell’imperatore fosse il
cristiano Giulio Africano: questi dedicò a Severo
Alessandro la sua opera enciclopedica in ventiquattro libri, i Κεστοί, e allestì per lui una biblioteca al
Pantheon46. I cristiani godevano dunque, almeno a
Roma, di condizioni favorevoli in questo periodo47.
Questa fase di relativa tranquillità si concluse bruscamente con l’ascesa al trono imperiale di Massimino il Trace, il quale scatenò a Roma una reazione
contro gli orientali e colpì, secondo quanto riportano le fonti48, anche i cristiani. Così nel 235 il vescovo
di Roma Ponziano e il presbitero Ippolito furono
deportati ad metalla in Sardegna, dove Ponziano discinctus est, cioè si dimise dalla carica di vescovo, evidentemente perché non sperava di tornare vivo dall’isola. Era questa la prima volta che un vescovo di
Roma si dimetteva dal suo ufficio49.
Non il suo successore Antero (fine 235-inizio
236), ma Fabiano (236-250) poté traslare le spoglie
di Ponziano dalla Sardegna a Roma quando la situazione tornò alla calma, anche grazie alla morte di
Massimino, nel 238. Neppure del suo episcopato
si conosce in verità molto, ma è significativa una
notizia del Catalogus Liberianus, secondo la quale
Fabiano «regiones divisit diaconibus et multas fabricas per cimiteria fieri iussit», cioè assegnò ai diaconi una determinata area di azione per l’opera di
assistenza e carità nella Chiesa di Roma e proseguì
nella fondazione di nuove aree cimiteriali. Continuava, dunque, anche allora quel processo di organizzazione e di unitario sviluppo della comunità
romana iniziato alla fine del II secolo con Vittore.
Ciò era certamente reso possibile anche dalla nuova
e, tutto sommato, favorevole contingenza politica.
In effetti, dopo la breve ma brusca rottura con i cristiani voluta a Roma da Massimino, si ristabilì,
almeno nella capitale, una situazione di relativa
tranquillità sotto i nuovi imperatori, in particolare
sotto Filippo (244-249). Eusebio riferisce che,
secondo una certa tradizione, Filippo sarebbe stato
cristiano e in una occasione, volendo partecipare
alla preghiera, gli sarebbe stato perfino ordinato di
mettersi tra i penitenti50. Naturalmente tale notizia è stata accolta dai primi lettori di Eusebio con
speciale compiacimento, come mostra il fatto che
essa è stata poi ripetuta molte volte. Ma Filippo,
per quanto tollerante nei confronti dei cristiani, fu
– nelle espressioni di culto oggi note – semplicemente pagano: da pagano celebrò il millenario di
Roma e fu pontefice massimo; inoltre adottò pienamente simboli pagani per l’emissione delle
monete. A ogni modo, la Chiesa di Roma beneficiava certo della disposizione tollerante dell’imperatore. Tutto ciò fino a quando lo scoppio di una
persecuzione sconvolse la comunità e fece, tra le
sue prime vittime, proprio Fabiano.
Un bilancio alla metà del III secolo
I risultati di questi straordinari sessant’anni
sono riassunti in una notizia del successore di
Fabiano, Cornelio, il quale afferma, in una lettera
del 251 a Fabio di Antiochia, che la Chiesa di Roma
aveva a quel tempo, a fianco del vescovo, quarantasei presbiteri, quarantadue accoliti, sette diaconi,
sette suddiaconi e cinquantadue tra esorcisti, lettori e ostiari51. Tali informazioni meritano di essere
attentamente considerate52. Per quanto concerne
la composizione del clero romano a questa data, è
evidente il rapporto numerico tra i sette diaconi e
i sette suddiaconi. Questi ultimi svolgono la loro
funzione certamente a fianco e in supporto dei primi.
Lo stesso può dirsi dei quarantadue accoliti in relazione ai quarantasei presbiteri: anche se non si tratta
di un numerus clausus, come già osservava harnack
in riferimento sia al primo sia al secondo gruppo53,
è chiaro che gli accoliti svolgono nei riguardi dei
presbiteri un’attività di assistenza e di accompagnamento, come suggerisce del resto il loro nome.
Rimane da considerare ora il più ampio gruppo
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EMANUELE CASTELLI
ricordato da Cornelio: ostiari, esorcisti, lettori. Il
loro numero (cinquantadue) è poco più della somma
di quello dei suddiaconi e degli accoliti. Se ne
desume quindi che anche questa più ampia base di
ordini minori fosse a sua volta in rapporto con quelli
superiori, esattamente come per gli altri casi sopra
esaminati. Ciò significa che in questo periodo il
clero romano aveva una struttura ben collaudata,
una vera e propria ‘organizzazione piramidale’. Al
vertice c’è infatti il vescovo; a un livello inferiore il
collegio dei presbiteri e l’ordine dei diaconi. A un
livello ancora inferiore il gruppo degli accoliti e dei
suddiaconi, i quali assistono e supportano i loro
superiori. Quindi alla base il consistente numero
(quasi un bacino di rifornimento per gli ordini superiori) di ostiari, lettori, esorcisti, i quali non a caso
vengono tutti considerati da Cornelio come afferenti a un unico insieme di cinquantadue membri.
La notizia di Cornelio ricorda poi il numero
delle vedove e degli indigenti assistiti dalla comunità romana a quel tempo: 1.500 persone. Tale
ingente numero mostra le notevoli capacità organizzative ed economiche della Chiesa di Roma, che
in questo momento è in grado di sostenere quotidianamente – naturalmente insieme ai membri del
clero – così tante persone. Sulla base di tali dati, gli
studiosi hanno avanzato alcune ipotesi sul numero
dei membri della Chiesa di Roma di allora. Le stime
oscillano da un minimo di 10.000 a 30.000 o anche
50.000 fedeli54. Nessuna di tali proposte può però
essere considerata valida sic et simpliciter. Cornelio, infatti, non dichiara in quale rapporto il numero
dei poveri fosse con quello della restante comunità.
Non si possono perciò ottenere risultati scientificamente validi sulla base di questa sola notizia.
È possibile però stimare in altro modo il numero
dei cristiani di Roma in questo periodo o, quantomeno, conoscere il ritmo di crescita della popolazione cristiana durante il III secolo nella capitale
dell’Impero: a partire dalle sepolture dei loro cimiteri. Come sopra detto, l’altra grande innovazione
istituzionale di questo straordinario sessantennio
consiste proprio nella nascita e nello sviluppo delle
prime aree di sepoltura a carattere comunitario,
organizzate e gestite direttamente dal clero romano
a beneficio di tutti i membri della comunità. In
effetti, fino quasi alla fine del II secolo le tombe dei
cristiani si confondevano con quelle dei non cristiani nelle comuni necropoli del suburbio della
città di Roma, «in den üblichen nichtchristlichen
Begräbnisstätten»55. Ma con gli episcopati di Zefirino e Callisto si svilupparono nel suburbio le prime
aree cimiteriali di proprietà e di uso esclusivo della
comunità romana. Anzitutto a nord, sulla via Salaria, la catacomba di Priscilla e, non lontano, quella
di Bassilla; a sud il cimitero di Callisto; inoltre il
cimitero di Pretestato e, nelle vicinanze, quello di
Domitilla; a ovest, sulla via Aurelia, la catacomba
di Calepodio. Verso la metà del III secolo sorsero
poi, sulla via Tiburtina a est di Roma, i cimiteri di
Ippolito e Novaziano e ancora altre aree funerarie,
per esempio il cimitero di S. Agnese, il Coemeterium Maius56.
Le recenti indagini di Vincenzo Fiocchi Nicolai stanno mettendo in luce la straordinaria rilevanza di uno studio sistematico del numero di sepolture dei più antichi cimiteri cristiani di Roma. I
risultati, sebbene ancora provvisori e calcolati per
difetto, sono estremamente interessanti57: l’Area I
di Callisto, ossia il cimitero fondato al tempo di
Zefirino e gestito dall’allora suo collaboratore Callisto, contava intorno agli anni 230-240 almeno
1.500 sepolture disposte nei circa 280 metri di gallerie sotterranee; alla metà del III secolo la sola
regione dell’Arenario della catacomba di Priscilla
e le aree attigue di Eliodoro e Tyche ospitavano
1.200 sepolture; nelle cosiddette regioni del Buon
Pastore e dei Flavi Aureli «A» della catacomba di
Domitilla v’erano poi almeno 250 sepolture, in
quelle della Scala Maggiore e Scala Minore del
cimitero di Pretestato circa 600. Il cimitero sull’Aurelia di Calepodio, dove proprio Callisto fu
deposto nel 222, contava, alla metà del III secolo,
circa 350 sepolture. In pochi decenni erano state
dunque già ospitate in queste sole aree cimiteriali
molte migliaia di credenti.
Dall’episcopato di Cornelio
alla persecuzione di Diocleziano
Lo scisma di Novaziano
Quando nel 251 Cornelio scriveva a Fabio di
Antiochia, senza volerlo offriva un bilancio dello
straordinario sviluppo della Chiesa romana dalla
fine del II alla metà del III secolo. Infatti la persecuzione scoppiata nel 250 con l’editto di Decio
costituì un’improvvisa battuta d’arresto di quello
sviluppo, almeno per ciò che riguarda la coesione
interna della comunità sino ad allora tenacemente
perseguita dai vescovi di Roma. Come sopra visto,
Vittore e Callisto avevano condannato i rappresentanti di varie posizioni liturgiche e teologiche (quartodecimani, teodoziani, modalisti e seguaci della
dottrina del Logos)58, ma questi, senza darsi per
vinti, avevano formato comunità autonome. Assai
poco si conosce della sorte di tali gruppi. Tuttavia,
intorno alla metà del III secolo il più importante rappresentante della teologia del Logos a Roma, il presbitero Novaziano, faceva parte – apparentemente
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LA ChIESA DI ROMA PRIMA E DOPO COSTANTINO
senza difficoltà – della Chiesa cattolica, cioè della
comunità romana ‘ufficiale’. Se ne deduce che i rappresentati della teologia del Logos e i loro seguaci
fossero ben presto ritornati in comunione con i successori di Callisto. Nulla è noto dei fatti che condussero al loro reintegro, ma sembrano eloquenti
le parole dell’Autore della Refutatio, il quale dichiara
che molti dei suoi iniziali seguaci erano rientrati
nella comunità dell’indulgente Callisto: tale affermazione suona come il riconoscimento di un rapido
fallimento della sua audace iniziativa.
La pacificazione si era dunque in poco tempo
compiuta, ma il fuoco covava sotto la cenere. I sostenitori della teologia del Logos avevano sì accettato
la riunificazione, ma non si erano mai bene integrati con il resto della comunità romana. Molte
diversità continuavano a sussistere tra i successori
di Callisto e gli eredi dell’Autore della Refutatio sul
piano teologico e ancor più in relazione alla prassi
disciplinare e penitenziale. Le conseguenze di tale
mancata integrazione non tardarono in effetti a
manifestarsi e furono questa volta molto gravi.
Il 1° gennaio 250 l’imperatore Decio emanò un
editto in base al quale ogni cittadino romano doveva
presentarsi a una commissione e sacrificare agli dei
e al genio dell’imperatore. La commissione avrebbe
poi provveduto a rilasciare un certificato – un libellus – attestante l’avvenuto sacrificio. Nell’editto non
si faceva menzione dei cristiani59. Era chiaro però
che essi non potevano rispettarlo, altrimenti avrebbero compiuto un atto di abiura della propria fede.
I cristiani si trovarono perciò improvvisamente di
fronte a una gravissima scelta: rifiutarsi di osservare
l’ordine e venire puniti con il carcere, i tormenti e
perfino la morte; oppure compiere l’atto e quindi
l’abiura. Così ebbe inizio la loro persecuzione o,
almeno, in questo modo essi intesero le finalità dell’editto di Decio. Fabiano fu una delle prime vittime: morì in carcere il 20 gennaio del 250. Altri cristiani, che non vollero sottoporsi all’ordine
dell’imperatore, andarono ugualmente incontro a
varie pene. Ma molti altri non si sentirono all’altezza
della prova né erano disposti a rischiare la vita, e perciò si piegarono in gran numero alla richiesta imperiale. Alcuni cedettero subito per paura, altri solo
dopo avere subito pene e tormenti; vi fu chi eseguì
in modo completo il sacrificio prescritto (sacrificati),
oppure si limitò a bruciare solo qualche granellino
d’incenso (thurificati). Non mancò poi chi si sottopose all’atto di culto a nome di un gruppo di credenti, familiari o amici, i quali in questo modo venivano esentati dal sacrificio. Altri cristiani riuscirono
invece a ottenere il libellus senza presentarsi alla commissione, per mezzo del denaro o comunque per corruzione (i libellatici). In un modo o nell’altro tutti
costoro, i lapsi, erano però incorsi in un grave peccato, che comportava l’esclusione dalla comunità.
Ma essi, mentre ancora era in atto la persecuzione,
chiesero di essere riammessi.
Si pose a questo punto il problema di concedere loro il perdono. Ne derivarono subito forti
contrasti60. A Roma, dopo la morte di Fabiano, si
decise di attendere la fine della persecuzione per
eleggere un successore e affrontare la questione.
Durante il periodo di sede vacante furono quindi
il collegio dei presbiteri e l’ordine dei diaconi ad
assumere il governo della comunità61. Una decisione era dunque rimandata, ma varie posizioni si
confrontavano sul problema. Alcuni erano disposti a concedere il perdono ai lapsi, ora attraverso la
dovuta penitenza ora anche grazie all’intercessione
dei confessores, cioè di coloro che avevano confessato la fede e avevano così guadagnato meriti in
favore dei fratelli più deboli e peccatori. Altri invece
sostenevano una più severa posizione: difficilmente
si poteva concedere il perdono a chi era caduto in
una colpa così grave. In una prima lettera del clero
romano alla Chiesa di Cartagine, si stabiliva tuttavia che nessuno dei lapsi doveva comunque essere
abbandonato. Essi dovevano invece essere esortati
al pentimento per ricevere da Dio il perdono; e se
qualcuno cadeva in malattia e già faceva penitenza,
lo si doveva immediatamente riammettere alla
comunione62.
A Roma tale posizione mutò, almeno in parte,
nel corso dell’anno 250 con la leadership, all’interno del collegio dei presbiteri, di Novaziano63.
Come già detto, era questi in quel momento il più
importante rappresentante della teologia del Logos
a Roma e si poneva in stretta continuità, anche per
la severa concezione della prassi penitenziale, con
l’Autore della Refutatio (non è da escludere che i
due abbiano avuto rapporti diretti). Novaziano era
inoltre scrittore raffinato64. Nessuna meraviglia
quindi che una tale brillante personalità venisse
incaricata, durante il periodo di sede vacante, di
scrivere alle altre comunità a nome del collegio dei
presbiteri e in generale di tenere le relazioni di corrispondenza per conto della Chiesa di Roma. Le
lettere da lui composte, tramandateci nell’epistolario di Cipriano65, mostrano chiaramente quali
idee egli avesse sulla questione penitenziale. Egli
riconosceva – ma sembrava quasi costretto a farlo
– la possibilità di ammettere i lapsi alla penitenza e
quindi di concedere loro la comunione; d’altra parte
egli esigeva che i delitti (funera) da loro compiuti
fossero espiati con severi rimedi66. Se poi qualcuno
dei lapsi cadeva in malattia, gli si poteva concedere
il perdono solo e soltanto se si trovava in punto di
morte67. Lo richiedeva – come egli più volte ripete
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EMANUELE CASTELLI
nell’epist. 30 – la disciplina evangelica. Novaziano
giustificava la sua severa posizione anche con un
richiamo alla tradizione. «Antiqua haec apud nos
severitas»: così egli dichiarava nella prima delle sue
lettere a Cipriano68. Ma questa affermazione non
corrispondeva a quanto avvenuto nei precedenti
decenni a Roma. Come visto, Callisto aveva sostenuto ben altra posizione nei riguardi di coloro che
cadevano in peccato grave.
La leadership di Novaziano verso la metà del
25069 fu probabilmente dovuta alla crisi provocata
dalla persecuzione nei primi mesi di quello stesso
anno a Roma: la sede episcopale era vacante, il
numero dei lapsi era alto e i problemi da risolvere
complessi. In tale difficile situazione si era probabilmente deciso di fare riferimento a una personalità forte e di spessore culturale. Ma è chiaro che
la posizione rigorista e severa di Novaziano non
era l’unica all’interno della Chiesa romana né era
quella tradizionale, anche se egli affermava il contrario, né poteva essere alla fine vincente, come già
aveva mostrato il precedente tentativo dell’Autore
della Refutatio, il quale a forza di severa disciplina
e rigore penitenziale si era ritrovato, alla fine, da
solo. La posizione di preminenza acquisita allora
da Novaziano mise comunque in evidenza agli occhi
della comunità i rischi della sua politica ecclesiastica. Sicché, quando nella primavera del 251 si
poté finalmente procedere all’elezione del nuovo
vescovo, la maggioranza della comunità romana si
schierò a favore di un altro presbitero, Cornelio,
che fu consacrato nell’episcopato (251-253). Novaziano veniva così sconfitto, ma non era intenzionato ad arrendersi.
La Chiesa dei puri: un problema discusso
a Nicea
Si aprì allora una grave crisi all’interno della
Chiesa di Roma. Novaziano si fece consacrare
anch’egli vescovo e avviò un’intensa attività di propaganda, al fine di guadagnare dalla sua parte
vescovi di altre sedi. Inviò peraltro suoi seguaci in
varie regioni del Mediterraneo per fondare nuove
comunità in opposizione alle chiese rimaste fedeli
a Cornelio. La reazione di quest’ultimo non si fece
attendere. Nello stesso 251 riunì un sinodo a Roma
con la partecipazione di sessanta vescovi e di molti
presbiteri e diaconi: Novaziano e i suoi seguaci
furono scomunicati e si riaffermò il principio che i
lapsi dovevano essere curati «con i rimedi della penitenza»70. Novaziano perse ben presto a Roma importanti sostenitori, i quali, chiedendo perdono a Cornelio, rientrarono in comunione con la Chiesa
cattolica. A Cartagine Cipriano, dopo un’iniziale
incertezza, si schierò anch’egli a favore di Cornelio.
In Oriente invece le cose andarono diversamente,
per le ragioni che ora si vedranno.
L’ambizione di Novaziano, che mirava all’episcopato, sarebbe stata la causa della frattura all’interno della comunità romana: questa motivazione
si legge spesso nelle fonti favorevoli a Cornelio e,
anzi, quest’ultimo la afferma espressamente nella
già menzionata lettera a Fabio di Antiochia71. Una
più attenta considerazione di alcune notizie mostra
però che, al di là di ambizioni personali, il dissidio
tra Novaziano e Cornelio, e quindi tra i rispettivi
sostenitori, era ideologico. Ciò spiega meglio il
rapido successo che incontrò la propaganda di Novaziano in Oriente. Cornelio rappresentava una Chiesa
che ammetteva la possibilità del perdono dei lapsi,
con la dovuta penitenza; Novaziano era invece reticente circa tale possibilità, perché concepiva la
comunità ecclesiale come un coetus sanctorum e non
ammetteva che i suoi membri potessero incorrere
in gravi cadute, come quelle avvenute durante la
persecuzione72. Il dissidio tra le due visioni era dunque netto e aveva, nella Chiesa di Roma, radici antiche. Si consideri a tal proposito una critica mossa
da Cipriano a Novaziano e ai suoi seguaci: questi
osavano fare quello che neppure Cristo aveva fatto,
cioè «separare il grano dalla zizzania»73. Tale affermazione si fonda su uno dei loci scritturistici di cui
già Callisto si era servito contro l’Autore della Refutatio per giustificare il perdono dei peccati gravi.
I tanti orientali – e tra questi proprio il vescovo
di Antiochia, Fabio – che si schierarono dalla parte
di Novaziano, dovevano dunque condividerne le
idee74. Dionigi di Alessandria afferma in una lettera a Stefano (vescovo di Roma dal 254 al 257) che
la pace tra la Chiesa romana e le tante comunità
dell’Oriente era stata però raggiunta in brevissimo
tempo e «contro ogni speranza»75. Dionigi non
manca a questo punto di fare i nomi di importanti
vescovi orientali contrari a Novaziano o riconciliati
con Cornelio (o con i suoi primi successori, Lucio
e Stefano). Si trattava di Demetriano di Antiochia,
Mazabane di Elia, Teoctisto di Cesarea e altri
ancora. Tale elenco, per quanto significativo,
potrebbe dare tuttavia un’impressione fuorviante.
Lo scisma di Novaziano non fu superato così velocemente. Ancora nel pieno IV secolo non erano
pochi né ininfluenti i suoi seguaci in Oriente76.
Quanto grave fosse la spaccatura dei novazianisti
lo mostra, tra l’altro, la decisione presa al concilio
di Nicea su di loro: nel canone 8, da un lato, si pronunciava la condanna per quanti si ritenevano puri
e non volevano concedere la comunione a chi era
caduto in tempo di persecuzione; dall’altro, si cercava comunque di favorire la riconciliazione e si
facevano particolari concessioni a quei membri del
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LA ChIESA DI ROMA PRIMA E DOPO COSTANTINO
clero novazianeo che fossero rientrati nelle file della
Chiesa cattolica77. Novaziano era morto forse
intorno al 25778, ma le conseguenze dello scisma da
lui provocato si sarebbero dunque fatte sentire per
lungo tempo.
La posizione del vescovo di Roma nella seconda
metà del III secolo
Triboniano Gallo (251-253), successore di
Decio, fu inizialmente ben disposto verso i cristiani,
ma poco dopo la sua elezione cambiò linea di
governo. A Roma Cornelio fu arrestato e allontanato a Civitavecchia, dove morì nel 253. Gli successe Lucio, il cui brevissimo pontificato (253-254)
si concluse ugualmente con l’esilio. Anche l’episcopato di Stefano fu breve (254-257), ma denso di
importanti avvenimenti relativi, questa volta, alla
storia e alla questione del primato del vescovo di
Roma.
Alla Chiesa romana era riconosciuta già nel II
secolo una posizione di speciale prestigio e di primaria importanza in dignità e onore tra tutte le
comunità cristiane79. Adolf von harnack ne ha efficacemente rilevato le principali motivazioni80: era
infatti la Chiesa degli apostoli Pietro e Paolo, definiti da Ireneo di Lione come «i gloriosissimi fondatori della comunità romana»81; ed era la Chiesa
della capitale dell’Impero. Si trattava inoltre di una
comunità particolarmente attiva e benemerita nell’assistere altre Chiese in difficoltà82. Tale condizione di prestigio e di preminenza non ebbe però
conseguenze concrete sul piano giurisdizionale se
non a partire dalla fine del II secolo, quando Vittore scomunicò i quartodecimani. Come sopra visto,
alcuni vescovi reagirono a quella decisa presa di
posizione, e non si sa con precisione quale effetto
avesse il loro intervento. Un dato è tuttavia certo:
mai prima di allora la Chiesa romana aveva avuto
una presa di posizione così decisa e ferma nei
riguardi di comunità dissidenti.
Questo incerto stato di cose, cioè una riconosciuta preminenza della comunità romana nel
mondo cristiano del II-III secolo, ma non un’altrettanto chiara e definita traduzione di tale preminenza sul piano giurisdizionale, si manifestò in vario
modo in una serie di controversie nella seconda
metà del III secolo, a cominciare da una contrapposizione tra Stefano e Cipriano. Durante la persecuzione di Decio, due vescovi spagnoli di nome
Basilide e Marziale si erano procurati i libelli al fine
di sfuggire all’ordine dell’editto, ma per questa
ragione essi erano stati deposti poco dopo dalla loro
carica e quindi sostituiti. I due non avevano accettato la condanna e avevano fatto appello a Roma
per la loro riabilitazione. Stefano accettò il loro
ricorso alla sede romana e li reintegrò nei rispettivi uffici. La sua decisione suscitò tuttavia una
forte reazione da parte delle comunità di Basilide
e di Marziale e dei due vescovi che li avevano sostituiti, Sabino e Felice, i quali si rivolsero a loro
volta alla ‘capitale cristiana’ dell’Africa romana,
cioè alla comunità di Cartagine e al suo vescovo
Cipriano, per opporre resistenza. Cipriano riunì
nel 254 un sinodo di vescovi africani che confermò
la condanna di Basilide e Marziale e sconfessò ipso
facto le decisioni di Stefano. Questi aveva agito –
così si affermò83 – senza essere perfettamente informato della questione ed era stato inoltre ingannato da Basilide. Stefano non sembra aver replicato, sicché il ricorso dei due spagnoli a Roma
risultò alla fine inutile. Ma la loro iniziativa rimane
degna di nota: era infatti la prima volta, a quanto
si sa, che si avanzava una richiesta di giudizio d’appello alla Chiesa romana da parte di rappresentanti di altre comunità.
Ben altro peso ebbe la successiva controversia
relativa alla validità del battesimo amministrato
dagli eretici. Questa volta la Chiesa romana si trovò
ad affrontare un problema che coinvolgeva numerose comunità occidentali e orientali. A Roma i cristiani battezzati dagli eretici, se chiedevano poi di
essere ammessi nella Chiesa cattolica, venivano
accolti solo attraverso la preghiera e l’imposizione
delle mani, senza amministrare una seconda volta
il battesimo84. In Africa e in molte Chiese orientali
non si considerava invece valido il battesimo degli
eretici e si procedeva perciò in tali casi ad amministrarlo nuovamente85. Non è noto che cosa abbia
provocato il contrasto tra i rappresentanti delle due
tradizioni; certo è che al tempo di Stefano il disaccordo sulla questione tra Roma da un lato e Cartagine, l’Africa e molte sedi orientali dall’altro era
grave. Stefano esigeva che si seguisse l’uso romano.
Cipriano e l’episcopato africano si rifiutarono e
anche le comunità orientali, come al tempo di Vittore avevano fatto i quartodecimani, si opposero
rivendicando la legittimità della loro tradizione,
sancita in questo caso anche da decisioni precedentemente prese in ambito sinodale. Per l’Oriente fu
il vescovo di Alessandria, Dionigi, a fare da rappresentante di Roma e in un certo senso da paciere
tra le parti in lotta. Ma Stefano fu irremovibile e
ingiunse di accettare l’uso romano con la minaccia
di interrompere la comunione con i dissidenti86. Il
vescovo di Roma fondava la legittimità della sua
richiesta richiamandosi espressamente alla tradizione apostolica. Inoltre egli – secondo le parole di
Firmiliano di Cesarea in una lettera a Cipriano – si
vantava della sede del suo episcopato («gloriatur de
episcopatus sui loco») e rivendicava la «successionem
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EMANUELE CASTELLI
Petri, super quem fundamenta ecclesiae collocata
sunt»87. È, quest’ultima, una notizia molto importante: sembra infatti che Stefano facesse riferimento
a Mt 16,18 («Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa») per supportare la legittimità
della sua richiesta e il suo ‘primato’. Se tale interpretazione è nel giusto, sarebbe questa la prima
volta, a nostra conoscenza, che un vescovo di Roma
si serve di questo passo delle Scritture per sostenere la propria speciale autorità in quanto successore dell’apostolo Pietro.
Firmiliano e gli altri orientali, come detto, non
erano disposti a rinunciare alle loro tradizioni. Si
giunse così sul punto di una grave rottura. Tuttavia nel 257 la morte di Stefano e la nuova persecuzione ordinata da Valeriano88, durante la quale perì
anche Cipriano, impedirono che la questione precipitasse. La soluzione del problema era rimandata89. Peraltro il nuovo vescovo di Roma, Sisto II
(257-258), ebbe un fitto scambio epistolare, in particolare con Dionigi di Alessandria90, al fine di
ricomporre la frattura. Quest’ultimo aveva adottato una via di mezzo: da un lato si limitava a
imporre le mani senza ribattezzare una seconda
volta, dall’altro rispettava le tradizioni delle altre
sedi, senza esigere che queste cambiassero il loro
uso. In tale modo di procedere egli si rifaceva a un
principio affermato anche da Cipriano, il quale sottolineava che ciascun vescovo aveva piena libertà
di decisione nell’amministrazione della propria
Chiesa91.
Come si diceva, con la morte di Stefano e di
Cipriano fu la persecuzione di Valeriano a porre
nuovi problemi. Forse anche per risanare le dissanguate casse dell’Impero, Valeriano, che già aveva
preso parte alla persecuzione di Decio92, emanò nel
257 un primo editto in cui si vietavano le riunioni
dei cristiani e l’ingresso ai loro cimiteri, e si disponeva la confisca dei terreni cimiteriali e la condanna
all’esilio per il clero. In questo modo si mirava a colpire, più che la coscienza e la fede dei singoli credenti, la Chiesa istituzionale al fine di smantellarne
l’assetto organizzativo. È da supporre che questo
primo editto non sortisse gli effetti sperati, e perciò
nel 258 ne fu bandito un secondo che comminava
pene ancora più gravi: condanna a morte per il clero
e confisca dei beni dei cristiani più abbienti e delle
più alte classi sociali. Se poi questi ultimi non recedevano dalla loro fede, avrebbero potuto fare anche
la fine dei membri del clero93. A Roma sembra che
l’attuazione degli editti, forse anche per l’assenza
degli imperatori, non fosse eccessivamente severa e
non provocasse molte vittime. Ad ogni modo, nel
258 il vescovo Sisto, sorpreso a celebrare messa nel
cimitero di Callisto, fu condannato a morte insieme
ai diaconi che lo accompagnavano. Morì il 6 agosto
258; quattro giorni dopo fu ucciso anche il diacono
Lorenzo. La persecuzione si concluse comunque
nello stesso 258 con la cattura di Valeriano da parte
dei persiani. Il suo successore e figlio Gallieno, già
associato precedentemente come augusto, si affrettò
infatti ad annullare le misure persecutorie ordinando
la restituzione alla Chiesa dei luoghi di riunione, dei
cimiteri e dei beni sottratti.
Con la fine della persecuzione la questione dell’autorità del vescovo di Roma si ripresentò in una
controversia con lo stesso vescovo di Alessandria,
Dionigi. Per reagire alla diffusione del modalismo
(sabellianismo) nella Pentapoli libica, Dionigi aveva
scritto, intorno al 257/258, a due vescovi di nome
Ammonio ed Eufranore. In questa lettera egli affermava i concetti fondamentali della teologia del Logos
secondo l’impostazione data a tale dottrina ad Alessandria, in particolare da Origene, il quale, al fine
di distinguere Padre, Figlio e Spirito Santo come
entità divine individualmente sussistenti e subordinate nell’ordine l’una all’altra, aveva parlato di
tre ipostasi divine. Ma Dionigi si era spinto poi oltre
definendo Cristo, tra l’altro, come creatura (ποίημα)
del Padre: tale affermazione annullava di fatto la
piena divinità del Figlio. Come ricorda Atanasio di
Alessandria, fonte primaria per la conoscenza di
questi eventi94, altri fedeli egiziani che erano sì di
retta fede, ma erano rimasti scandalizzati dalle affermazioni di Dionigi, reagirono e, senza rivolgersi
allo stesso Dionigi, come invece avrebbero dovuto
fare secondo Atanasio, chiesero direttamente a Roma
di intervenire95.
Dopo la morte di Sisto II, il nuovo pontefice
romano, anch’egli di nome Dionigi, si occupò della
richiesta venuta dall’Egitto. A quanto risulta, scrisse
due lettere, l’una indirizzata personalmente al
vescovo alessandrino, l’altra – come sembra – a
coloro che si erano rivolti a Roma, di questa Atanasio ci ha conservato una parte preziosa96. È notevole come la posizione dottrinale di Dionigi si collochi in piena continuità con la precedente teologia
romana nell’affermare un monarchianismo moderato. In polemica con il suo omonimo alessandrino,
che non viene tuttavia espressamente nominato,
Dionigi rifiuta anzitutto il concetto di tre divise
ipostasi divine, perché ciò avrebbe significherebbe
affermare tre divinità distinte e separate, e in questo modo sarebbe annullato «il santissimo kerygma
della Chiesa di Dio, la monarchia»97; inoltre egli
respinge la definizione di Cristo come creatura
(ποίημα), considerandola un’affermazione blasfema;
sottolinea peraltro in vario modo la necessità di salvaguardare, nella riflessione teologica, «la divina
trinità e il santo kerygma della monarchia»98.
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LA ChIESA DI ROMA PRIMA E DOPO COSTANTINO
Dionigi di Alessandria rispose al suo omonimo
romano (e ai suoi accusatori) ritrattando alcune
affermazioni (soprattutto la definizione di Cristo
come creatura), ma difendendone altre (in particolare la dottrina delle ipostasi)99. Non consta poi che
il confronto tra i due Dionigi sia andato oltre. Di
questa vicenda meritano comunque di essere qui
rilevati almeno due aspetti. Il primo riguarda la
questione del primato: era infatti la prima volta che
un vescovo di Roma, dietro richiesta di alcuni orientali, interveniva in una controversia dove a essere
messo sotto accusa era addirittura il vescovo di Alessandria, cioè la figura ecclesiastica più importante
di tutto l’Egitto. Per ciò che concerne invece il problema teologico, si deve osservare che la posizione
dottrinale del romano Dionigi continuava nella linea
dei suoi predecessori (in particolare di Callisto,
anche se le rispettive formulazioni sono assai diverse)
nel sostenere un monarchianismo moderato. Le
affermazioni dottrinali da lui espresse erano, peraltro, destinate a grande fortuna nei decenni successivi, non solo a Roma ma in generale in Occidente:
al concilio di Serdica del 343, gli occidentali guidati dai rappresentanti del vescovo di Roma riaffermeranno in effetti, sia pur con piccole variazioni,
la posizione dottrinale formulata circa ottant’anni
prima da Dionigi. La linea monarchiana moderata
fu dunque l’impostazione teologica tradizionale
della gerarchia romana fino all’avanzato IV secolo.
La teologia del Logos fu invece espressione solo di
alcune figure (come l’Autore della Refutatio e Novaziano) e non costituì la dottrina professata ufficialmente dai vescovi romani dell’epoca100.
Prima di concludere questa parte del discorso,
è bene considerare ancora un’altra vicenda avvenuta in quegli stessi anni ad Antiochia, che coinvolse in qualche modo anche la figura del vescovo
di Roma. Intorno al 260 era vescovo di Antiochia
Paolo di Samosata101, un personaggio contro cui
si erano sollevate presto varie critiche, sia per la
sua posizione teologica sia per la sua spregiudicata – almeno a detta dei suoi accusatori – condotta mondana e per il rapporto con il potere politico102. Contro di lui si era tenuto nel 264 un primo
sinodo e nel 268 un secondo, che l’aveva condannato e deposto. Al suo posto era stato consacrato
Domno, figlio del precedente e defunto vescovo
della città Demetriano. Di tutto ciò i partecipanti
al sinodo avevano informato sia il vescovo di
Roma, Dionigi – che di lì a poco sarebbe morto –,
sia Massimo, il nuovo vescovo di Alessandria103.
Ma Paolo godeva di un certo sostegno ad Antiochia, anche grazie all’appoggio di Zenobia – quest’ultima era a capo del vicino regno di Palmira
ed esercitava la sua influenza in città –, e non era
intenzionato ad abbandonare l’edificio di proprietà del vescovo. I vescovi contrari a Paolo
richiesero allora l’intervento dell’imperatore Aureliano, il cui arrivo in Siria nel 272 segnò anche il
ritorno dell’area sotto il pieno controllo dell’autorità romana. Così l’imperatore ordinò di consegnare la casa del vescovo a coloro che erano in
corrispondenza con i vescovi dell’Italia e di Roma
(a quel tempo la cattedra romana era occupata dal
successore di Dionigi, Felice) 104. Tra le molte
osservazioni che si potrebbero fare sulla vicenda,
si deve almeno rilevare, da un lato, come alcuni
vescovi in tutta naturalezza circa quarant’anni
prima di Costantino si fossero rivolti ad Aureliano per una controversia ecclesiastica di cui essi
non riuscivano a venire definitivamente a capo;
dall’altro come l’imperatore riconoscesse nei
vescovi italiani, e in particolare in quello di Roma,
il fondamentale punto di riferimento per la soluzione della questione. Quell’evento contribuiva
certo ad accrescere il prestigio e l’importanza della
sede romana in Oriente anche in quanto Chiesa
della città imperiale.
Dalla morte di Felice allo scoppio della persecuzione di Diocleziano si succedettero tre vescovi:
Eutichiano (273-283), Gaio (283-296) e Marcellino
(296-304; quest’ultimo in un’iscrizione del cimitero di Callisto è chiamato papa105: si tratta della
prima attestazione epigrafica di questo termine in
riferimento al vescovo di Roma). Sebbene assai
poche siano le notizie su questi tre pontificati, è
certo che la comunità romana continuò a crescere
di numero in questi anni di pace e parallelamente
seguitarono ad aumentare i beni e le aree cimiteriali cristiane nel suburbio della città. A tal riguardo
è notevole come, dalla metà del III secolo ai primi
anni del IV, proseguissero ininterrottamente le fondazioni di nuovi cimiteri, alcuni dei quali ebbero
da subito grandi proporzioni, mentre quelli già esistenti vennero ampliati106. Furono, infatti, realizzati in questo periodo 29 nuovi complessi funerari,
dislocati praticamente in ogni via del suburbio o
anche su strade secondarie, evidentemente in considerazione dell’area della città a cui essi dovevano
concretamente servire. Notevole è il caso del cimitero Ad duas Lauros. Si tratta di un’area funeraria
di proporzioni particolarmente ampie, situata nella
parte orientale del suburbio, sulla via Labicana.
Secondo i calcoli di Jean Guyon, tale cimitero poteva
accogliere circa 11.000 tombe e doveva assolvere ai
bisogni di un gruppo di almeno 9.000 persone107.
Altri complessi funerari precedentemente fondati
vennero invece ora, come si diceva, ampliati. Il
cimitero di Callisto, ad esempio, fu ingrandito con
la creazione di una nuova regione funeraria accanto
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EMANUELE CASTELLI
all’originaria ‘Area I’. Con i nuovi ampliamenti tale
complesso funerario continuò fino agli inizi del IV
secolo a essere il luogo di sepoltura prescelto per i
vescovi di Roma: nella ‘cripta dei papi’ erano stati,
infatti, sepolti nel III secolo Antero, Ponziano,
Fabiano, Lucio, Stefano, Sisto II, Dionigi, Felice,
Eutichiano; in un ambiente non lontano furono poi
sepolti Gaio e, agli inizi del IV secolo, Eusebio (309)
e forse Milziade (311-314)108.
Anni difficili (304-311)
Con l’inizio della persecuzione di Diocleziano
nel 303 – della quale non è qui possibile indagare
le cause e seguire le fasi – si aprì un periodo di forti
agitazioni all’interno della Chiesa romana, conclusosi solo nel 311 con l’elezione di Milziade. Nel 304
Marcellino scompare di scena. L’ambigua e generica notizia di Eusebio, secondo cui la persecuzione
«prese» o «colpì» anche Marcellino109, riassume efficacemente le discordanti tradizioni che si svilupparono su questo vescovo di Roma nei decenni successivi (anche a causa del tentativo dei donatisti di
gettare discredito sulla sede romana per le ragioni
che si vedranno): le fonti lo ricordano, in effetti, sia
come apostata sia come martire.
Dopo la sua morte, le difficili condizioni politiche suggerirono di attendere la fine della persecuzione per eleggere un successore. Si aprì così un
nuovo periodo di sede vacante. La comunità fu guidata per qualche tempo da Marcello. Gli studiosi
dissentono sul ruolo effettivamente ricoperto da
questo personaggio: secondo Mommsen si trattava
di un semplice presbitero a cui era stata affidata la
direzione della comunità in tempo di crisi; altri storici ritengono invece che Marcello venisse effettivamente consacrato vescovo di Roma110. La sua
elezione si collocherebbe, in tal caso, dopo l’ottobre del 306, quando Massenzio fu acclamato imperatore e prese il potere a Roma. Massenzio si mostrò
in effetti subito favorevole nei riguardi dei cristiani
della capitale facendo cessare la persecuzione111.
Neanche così, tuttavia, terminarono le agitazioni
per la comunità romana. Come al tempo di Decio,
gli editti emanati contro i cristiani avevano nuovamente posto la questione dei lapsi, cioè il problema
della riammissione di coloro che avevano sacrificato o avevano consegnato alle autorità romane i
libri e gli arredi sacri perché fossero bruciati (i
cosiddetti traditores). La posizione di Marcello era,
mutatis mutandis, quella che era stata di Cornelio:
si poteva concedere il perdono dopo un cammino
di dovuta penitenza112. Ma stavolta l’opposizione
alle sue decisioni fu violentissima: a Roma scoppiarono disordini e si arrivò perfino allo spargimento di sangue. Di fronte a tali eventi Massenzio
decise di mandare in esilio Marcello, che morì nel
308 o l’anno successivo. Poco dopo fu eletto vescovo
Eusebio, ma gli scontri tra le due parti ripresero, le
divisioni si acuirono e un personaggio di nome Eraclio si pose a capo dei dissidenti, come testimonia
l’inizio di una iscrizione di papa Damaso dedicata
alla memoria di Eusebio: Heraclius vetuit lapsos peccata dolere, | Eusebius miseros docuit sua crimina flere.
| Scinditur in partes populus gliscente furore, | Seditio, caedes, bellum, discordia, lites113. Massenzio mandò
ora in esilio sia Eusebio, che morì in Sicilia verso la
fine del 310 o agli inizi del 311, sia Eraclio.
Si aprì così un altro, sia pur breve, periodo di
sede vacante, non dovuto a cause politiche ma a dissidi interni alla comunità. Infatti, solo fonti tarde
presentano Massenzio come nemico dei cristiani,
evidentemente perché intendono, a suo discapito,
esaltare la figura di Costantino. Ciò non corrisponde
tuttavia al vero. Eusebio di Cesarea riferisce che
Massenzio sospese ogni persecuzione a Roma e si
dimostrò mite verso i cristiani, a differenza dei suoi
predecessori114. D’altra parte è pur vero che Massenzio mandò in esilio Marcello, Eusebio e anche
Eraclio: questi provvedimenti erano però dovuti a
ragioni di ordine pubblico, non di politica religiosa115. Solo, dunque, nell’inoltrato 311, probabilmente quando le agitazioni si erano almeno in
parte sedate, si poté procedere all’elezione episcopale e si scelse Milziade (311-314). Era questi
vescovo di Roma quando Costantino vinceva, nel
312, lo scontro, tra i Saxa Rubra e ponte Milvio,
con il rivale Massenzio e diventava signore unico
della parte occidentale dell’Impero. Iniziava a questo punto una nuova fase nei rapporti tra Stato e
Chiesa. La politica ecclesiastica di Costantino e dei
suoi primi successori non si sarebbe tradotta però
semplicemente in vantaggi per la Chiesa di Roma.
I rapporti tra la figura dell’imperatore e quella del
vescovo romano si sarebbero mossi in realtà nei
decenni successivi in varie direzioni: cooperazione,
prese di distanza e conflitti.
Da Milziade a Liberio: il nuovo rapporto
con il potere imperiale
La svolta costantiniana vista dal suburbio
di Roma
Sin dall’ingresso nell’Urbe nel 312, le concessioni e le donazioni di Costantino, e poi anche dei
suoi familiari e successori, a beneficio della comunità e del clero romano furono eccezionali116. Saranno
qui considerati soltanto i grandi edifici di culto cristiani realizzati per loro iniziativa nei primi decenni
della ‘svolta’117. Si iniziò subito, alla periferia della
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LA ChIESA DI ROMA PRIMA E DOPO COSTANTINO
città, con l’erezione della basilica lateranense, la
cui costruzione, avviata forse già alla fine del 312,
fu completata prima del 324. Era un edificio di
grandi proporzioni (m 100× 56), diviso in cinque
navate, nelle cui immediate vicinanze fu costruito
anche un grande battistero ottogonale. Fu questa
la chiesa cattedrale della sede romana, destinata
alle riunioni plenarie dei fedeli e alla liturgia del
vescovo (al quale fu pure donato l’adiacente palazzo
lateranense). Nel suburbio sorsero inoltre, negli
anni a venire, alcune grandi basiliche funerarie:
Pietro e Marcellino sulla via Labicana, S. Lorenzo
sulla Tiburtina, S. Agnese sulla Nomentana, S.
Marco sulla via Ardeatina, la Basilica apostolorum
sulla via Appia per il culto congiunto dei due apostoli Pietro e Paolo; e poi, oltre a un edificio di culto
per l’apostolo Paolo sulla via Ostiense, ancora una
grande basilica sul colle Vaticano.
Fu questa la più imponente delle costruzioni
volute da Costantino per la Chiesa di Roma, la più
grande basilica costruita nel suburbio (m 119×64×38),
eretta sull’antica edicola funeraria (seconda metà
del II secolo) che celebrava la memoria dell’apostolo Pietro118. La realizzazione dell’edificio, iniziata intorno al 320, richiese molti anni di intenso
lavoro e si concluse solo sotto il regno del figlio di
Costantino, Costanzo II. La grande basilica non
esaltava però solo la memoria di Pietro, ma celebrava anche l’imperatore Costantino che l’aveva
fermamente voluta. Forse nulla in tal senso è più
significativo dell’iscrizione posta con buona probabilità alcuni anni dopo il 324 sull’arco trionfale
della basilica: Quod duce te mundus surrexit in astra
triumphans ǀ hanc Constantinus victor tibi condidit
aulam119. Il primo verso di questa iscrizione è un
capolavoro di ambiguità: sia duce te sia mundus possono essere intesi (o almeno sono stati interpretati
dagli studiosi) in modi diversi. Il secondo verso è
invece chiarissimo e mette in forte rilievo la potente
personalità dell’imperatore che ha voluto la grandiosa opera: Constantinus victor «ha fondato per te
questa dimora»120.
Le grandi basiliche funerarie occuparono tutte
il suburbio della città. Solo la basilica lateranense
fu eretta all’interno delle mura, sebbene in posizione di estrema periferia. Si trattava di una scelta
voluta dall’imperatore, che, peraltro, non intendeva toccare la città con la costruzione di edifici cristiani121. In effetti la ‘conquista’ cristiana dello spazio urbano sarebbe stata opera non tanto degli
imperatori quanto dei vescovi di Roma. Si trattò
di un processo lento e graduale, iniziato con Silvestro e proseguito con i suoi successori Marco, Giulio, Liberio, Damaso e gli altri papi di fine IV e del
V secolo122.
Milziade, Silvestro e i primi Reichskonzilien
Con la realizzazione dei primi grandi edifici di
culto nel suburbio romano, Costantino aveva dunque fatto per la comunità cristiana della capitale
quello che, sino ad allora, nessuno aveva potuto
realizzare. Ma l’imperatore coinvolse subito la
Chiesa e il vescovo di Roma anche in questioni dottrinali e di ‘politica ecclesiastica’ di ampio respiro.
Costantino, infatti, desiderava non solo una Chiesa
libera di professare il proprio culto, ma soprattutto
una Chiesa amica e alleata dello Stato che contribuisse, con la sua unità, alla stessa unità dell’Impero. Sicché uno dei problemi che si dovettero
subito affrontare nell’interesse e per il bene sia della
Chiesa sia dell’Impero fu quello donatista.
Si trattava di una profonda divisione tra le
comunità dell’Africa proconsolare, della Numidia
e della Mauretania. La crisi era scoppiata nel 312:
un sinodo africano aveva invalidato la nomina di
Ceciliano a vescovo di Cartagine perché consacrato
da Felice di Aptungi, che molti consideravano uno
dei traditores, cioè uno di coloro che per viltà avevano consegnato i libri sacri all’autorità romana
durante la persecuzione dioclezianea. Tali nemici
di Ceciliano, capeggiati da Donato e per questo poi
denominati donatisti, avevano quindi eletto un
nuovo vescovo, Maiorino. Le restanti Chiese africane si erano divise, parteggiando o per Ceciliano
o per il suo antagonista. Nel 313 furono gli stessi
donatisti a ricorrere a Costantino e a chiedere che
il caso fosse sottoposto ai vescovi della Gallia, una
regione non ancora coinvolta dalla controversia123.
Costantino tentò invece la via dell’arbitrato, convocando a Roma le parti contrapposte (Ceciliano e
i suoi sostenitori da un lato, i suoi avversari dall’altro), e chiamò tre vescovi della Gallia a giudicare
il caso, sotto la presidenza di Milziade. Il processo
si tenne nell’ottobre di quell’anno nel palazzo del
Laterano, che già allora era stato in parte ceduto al
vescovo di Roma, mentre un’altra ala del palazzo
era occupata da Fausta, moglie di Costantino. Il
verdetto fu sfavorevole ai donatisti, ma questi si
opposero alla validità del processo romano perché
troppo pochi erano stati i partecipanti e inoltre la
decisione era stata presa troppo in fretta124.
Il disappunto di Costantino fu forte, ma egli,
dinanzi alla gravità della crisi in Africa, preferì
tenere conto della nuova protesta, nella speranza
di trovare presto una soluzione il più possibile condivisa. Ordinò dunque, per l’anno successivo, la
convocazione di un grande sinodo ad Arles, in cui
doveva convenire il maggior numero di vescovi della
parte occidentale. La decisione dell’imperatore invalidava così, di fatto, il verdetto pronunciato a Roma
da Milziade e dai vescovi della Gallia e certamente
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EMANUELE CASTELLI
dovette essere accolta con un certo disappunto da
parte della sede romana. Dopo la morte di Milziade, il nuovo vescovo Silvestro, benché invitato
ad Arles125, non si presentò e si fece piuttosto rappresentare: sarà questa una scelta adottata anche
in successive occasioni dai vescovi di Roma, i quali
non parteciperanno direttamente alle grandi assise
convocate dagli imperatori126. Al suo posto giunsero due presbiteri e due diaconi romani127, i quali
non tennero tuttavia la presidenza del sinodo. Fu
invece Marino, il vescovo locale, a presiedere ai
lavori. Il giudizio di appello fu nuovamente sfavorevole ai donatisti. I vescovi convenuti ad Arles
approfittarono poi di questa circostanza per sentenziare su altre questioni ancora aperte, per esempio la celebrazione della Pasqua e il battesimo degli
eretici, optando in questo caso per una via di mezzo:
se il battesimo era avvenuto nel nome del «Padre
e del Figlio e dello Spirito Santo», era sufficiente
imporre solo le mani: altrimenti si doveva procedere a un nuovo battesimo128. Il vescovo di Arles,
Marino, e gli altri partecipanti ritennero quindi
loro dovere informare di tali decisioni papa Silvestro, succeduto a Milziade. A lui – come sembra
ricavarsi dal testo, assai corrotto, della lettera sinodale – essi lasciavano il compito di comunicare i
deliberata alle altre sedi129.
I donatisti non riconobbero la sconfitta neppure questa volta e tornarono ad appellarsi. La
controversia africana si sarebbe così trascinata
molto a lungo. Già questi primi avvenimenti
appaiono tuttavia significativi per fare alcune considerazioni sulla storia del primato romano e le
dispute dottrinali nel IV secolo. Come sopra visto,
le precedenti controversie si erano svolte senza il
coinvolgimento dell’autorità politica e il vescovo
di Roma, quando era stato chiamato in causa, aveva
preso liberamente posizione su varie questioni. In
un solo caso era intervenuta l’autorità imperiale
con Aureliano, il quale aveva rimesso la decisione
sul caso di Paolo di Samosata ai vescovi dell’Italia e di Roma, e così non aveva fatto altro che conferire maggiore prestigio alla sede romana. Con
Costantino le cose cambiano. D’ora in poi l’imperatore si considererà coinvolto in prima persona
nei problemi della Chiesa, al punto da convocare
lui stesso i concili per la soluzione delle varie controversie, e in più di un’occasione sarà proprio il
prestigio della sede romana a fare le spese della
forza e dell’autorità imperiale. Nella soluzione
delle questioni ecclesiastiche ci sarà da questo
momento «un giocatore in più»130.
«Tempi oscuri»: così lo storico francese Charles Pietri definisce gli anni del pontificato di Silvestro (314-335) e di Marco (335), sui quali siamo
assai poco informati131. Non sembra, in effetti, che
Silvestro abbia giocato un ruolo di qualche significato nelle pur molto importanti vicende del
periodo. La dottrina del presbitero di Alessandria
Ario, secondo il quale il Figlio di Dio non era
coeterno con il Padre ma era stato creato dal nulla,
aveva portato sin dal 318 a gravi divisioni tra i membri dell’episcopato orientale132. Costantino, sconfitto Licinio nel 324 e divenuto unico signore dell’Impero, aveva deciso di porvi rimedio: convocò
perciò per il 325 tutti i vescovi della cristianità in
una grande assemblea a Nicea, un concilio ecumenico, per superare i contrasti e ristabilire l’unità.
In questa convocazione Silvestro non giocò alcun
ruolo e al concilio si fece semplicemente rappresentare dai presbiteri romani Vito e Vincenzo. L’assemblea fu invece dominata dalla presenza degli
orientali.
A Nicea Ario e i suoi più convinti sostenitori
furono condannati. Il simbolo di fede approvato
proclamava invece Cristo il Figlio di Dio come «Dio
da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero» e lo
dichiarava ὁμοούσιος («consustanziale») con il Padre.
Questa e altre affermazioni del simbolo non erano
però pienamente accette a parecchi partecipanti al
concilio, in particolare a coloro che, pur senza essere
dalla parte di Ario, sostenevano però la teologia del
Logos e quindi rilevavano più nettamente anche una
certa distinzione tra Padre e Figlio. Per non opporsi
alla volontà dell’imperatore, che voleva la pace e la
riunificazione, essi diedero tuttavia il proprio assenso
alla formula di fede. È evidente però quanto l’accordo raggiunto in questo modo a Nicea risultasse
precario. Lo scontento di molti esponenti dell’episcopato si manifestò in effetti già poco dopo la conclusione del concilio e si affiancò a quello dei sostenitori veri e propri di Ario. L’imperatore Costantino
ritenne alla fine opportuno tenerne conto. Senza
entrare nuovamente in questioni dottrinali, lasciò
negli anni successivi che la reazione antinicena (solo
in parte di tendenza ariana) riguadagnasse almeno
in parte il terreno perduto e consentì un riequilibrio delle forze in lotta. Tutto ciò ebbe il suo culmine circa dieci anni più tardi addirittura con la
riabilitazione di Ario e la deposizione, nel sinodo
di Tiro del 335, di Atanasio, cioè del successore del
vescovo di Alessandria, Alessandro, che era uscito
vincitore dal concilio. La condanna di Atanasio,
dovuta a ragioni disciplinari, costituì un duro colpo
anche per la Chiesa di Roma. La sede episcopale
alessandrina era da tempo in stretti rapporti con
quella romana, ma in questa vicenda Silvestro non
era stato coinvolto. A quanto si sa, egli non reagì
neppure dopo che Costantino ebbe mandato Atanasio in esilio a Treviri.
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LA ChIESA DI ROMA PRIMA E DOPO COSTANTINO
Da Giulio a Liberio: il primato del vescovo
di Roma tra Oriente e Occidente
Solo dopo la morte di Silvestro e di Marco (336)
la sede romana prese parte attiva nella controversia
ariana con il nuovo vescovo Giulio (337-352). L’occasione si presentò alla morte dell’imperatore Costantino, mentre i suoi tre figli, Costantino II, Costante
e Costanzo II, si spartivano il controllo dell’Impero.
Alcuni vescovi, deposti e allontananti dalle proprie
sedi a opera del partito antiniceno, avevano potuto
rientrare nelle proprie comunità. Anche Atanasio,
con l’appoggio di Costantino II (morto nel 340),
poté tornare ad Alessandria, dove fu accolto trionfalmente. La sua fu però una vittoria di poco
momento. Gli era infatti ostile l’imperatore della
parte orientale, Costanzo II, che appoggiava gli
ariani. Atanasio cercò sulle prime di difendersi anche
con la convocazione nel 338 di un concilio di vescovi
egiziani, che lo sostennero compatti, ma l’anno successivo fu comunque costretto a lasciare Alessandria una seconda volta a causa dell’opposizione del
partito antiniceno. Stessa sorte era peraltro già toccata anche ad altri vescovi, rientrati nelle proprie
sedi e in breve tempo nuovamente allontanati. D’altra parte, Eusebio di Nicomedia, il capo del partito
antiniceno in Oriente, prevedendo che i vescovi
espulsi – e tra questi Atanasio – avrebbero fatto questa volta appello al vescovo di Roma, cercò di anticiparne le mosse. Scrisse dunque a Giulio anche a
nome di altri esponenti orientali. La richiesta era
chiara: Giulio doveva rifiutare la comunione con
Atanasio e con gli altri vescovi deposti – peraltro
per diverse ragioni –, come Marcello d’Ancira.
Una piccola delegazione di orientali fu incaricata di portare la lettera a Roma, dove s’imbatté nei
messi di Atanasio, il quale prima di lasciare Alessandria aveva provveduto anch’egli a inviare alla
sede romana gli atti del sinodo del 338, dove aveva
ricevuto il sostegno dell’episcopato egiziano. Gli
appelli delle due delegazioni fecero maturare a Roma
l’idea di discutere la questione in un concilio. Con
il successivo arrivo a Roma di Atanasio (e di altri
vescovi deposti), Giulio ritenne quindi giunto il
momento propizio per convocare le parti in lotta e
invitò una rappresentanza di orientali a venire nell’Urbe per far valere le proprie ragioni. Questi non
avevano in realtà interesse a partecipare, giacché la
loro sola presenza avrebbe di fatto sospeso la validità delle sanzioni contro Atanasio e gli altri condannati. Si rifiutarono perciò di presentarsi, opponendo alla richiesta romana la validità delle decisioni
prese in particolare nel sinodo di Tiro contro lo
stesso Atanasio. Peraltro, nella lettera di risposta al
vescovo romano, Eusebio minacciò la divisione se si
fosse accordata la comunione ai condannati. Giulio
non si fece intimidire: nel 341 fu celebrato il concilio romano con la partecipazione di circa cinquanta
membri dell’episcopato italiano. Atanasio, Marcello e altri esuli furono così riabilitati. Di ciò diede
notizia lo stesso Giulio in una lettera a Eusebio e
ad altri orientali133, dichiarando in particolare l’irregolarità procedurale e di conseguenza l’invalidità
della condanna di Atanasio, e rivendicando la competenza della sede romana sulle questioni concernenti la chiesa di Alessandria134. Nella stessa lettera, d’altra parte, Giulio criticava il comportamento
tenuto dagli orientali nella vicenda, considerandolo
contrario non solo alla tradizione dei padri ma anche
alle «disposizioni» dell’apostolo Paolo, e sottolineava
che le sue affermazioni si basavano sulla tradizione
di Pietro135.
Gli orientali non accettarono naturalmente le
decisioni del sinodo romano. Si giunse così alla rottura tra l’episcopato d’Occidente e quello d’Oriente.
Il concilio organizzato a Serdica nel 343, con l’appoggio degli imperatori Costante, per la parte occidentale, e Costanzo, per quella orientale, al fine di
risolvere il dissidio rappresentò un inutile tentativo di trovare un accordo. La situazione in effetti
si aggravò. Già prima di cominciare, le parti si contrapposero sulla possibilità che Atanasio e altri condannati partecipassero ai lavori, e si scomunicarono
a vicenda. Gli orientali abbandonarono così il concilio. Invece l’episcopato occidentale, allineato sulla
posizione del vescovo di Roma, che si era fatto rappresentare anche in questa occasione, proseguì
ugualmente con i lavori e, tra le decisioni prese,
riconobbe nei canoni 3a, 3b, 4a, 4b la possibilità
per un vescovo condannato da un sinodo di fare
appello, in base a determinate condizioni, alla sede
romana136. Gli occidentali sottoscrissero inoltre a
Serdica una formula di fede: come rilevato da Manlio Simonetti, il simbolo allora approvato mostra
come la posizione teologica romana espressa ottant’anni prima da Dionigi nella lettera agli egiziani si
fosse ampiamente diffusa e imposta in Occidente137.
Un tentativo di ricomporre la frattura tra occidentali e orientali poté essere compiuto solo alcuni
anni più tardi a opera di Costanzo II, quando questi, dopo la morte di Costante e la sconfitta dell’usurpatore Magnenzio, riunì nelle sue mani il governo
dell’Impero. Fu allora che i rapporti fra il trono imperiale e la cattedra romana degenerarono sino ad arrivare alla completa rottura. L’autoritario Costanzo,
determinato a ricostituire la perduta unità e concordia dell’episcopato, voleva a ogni costo fare approvare anche in Occidente la condanna di Atanasio.
Con la forza riuscì nel suo intento in due concili,
avvenuti rispettivamente nel 353 ad Arles e nel 355
a Milano. Il nuovo papa Liberio (352-366), che si
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EMANUELE CASTELLI
era fatto anche allora rappresentare, si rifiutava però
di dare il suo assenso alla condanna. Di fronte a tale
opposizione Costanzo diede ordine di procedere
all’arresto e alla deportazione del vescovo di Roma
in Tracia, a Beroea, presso il vescovo Demofilo, rappresentante del partito antiniceno; e al posto di Liberio fu insediato a Roma Felice, con l’appoggio di un
gruppo filoimperiale. Larga parte della comunità
romana, sconvolta per quanto accaduto, cercò comunque di rimanere fedele al vescovo esiliato.
Iniziarono a questo punto anni convulsi per la
Chiesa di Roma. Liberio, fiaccato dal duro esilio,
firmò circa due anni dopo, nel 357, la condanna di
Atanasio138, ma solo nel 358 poté tornare nell’Urbe,
quando Costanzo si sentì sicuro di averlo piegato al
proprio volere. Felice fu allora allontanato. Al rientro, Liberio cercò comunque di ristabilire la pace
nella comunità e per il resto rimase estraneo al grande
concilio ecumenico voluto da Costanzo II nel 359,
tenuto a Rimini per gli occidentali e a Seleucia per
gli orientali, e a quello successivo di Costantinopoli
(360), dove si imponeva a tutto l’Impero la generica professione di fede secondo cui il Figlio era
simile al Padre secondo le Scritture. Solo con la
morte di Costanzo II (362) il vescovo di Roma tornò
a far sentire la sua voce. In una lettera ai vescovi italiani difese la riammissione e il perdono dei tanti
vescovi che, a causa della pressione dell’imperatore,
avevano firmato la generica formula di fede di
Rimini; intorno al 366 accordò il suo sostegno ad
alcuni vescovi orientali, inviati a Roma in rappresentanza dell’episcopato asiatico antiariano che cercava appoggio contro il nuovo imperatore Valente,
a patto però che essi sottoscrivessero il simbolo
niceno. La sua morte avvenne nello stesso 366. Erano
allora passati più di quarant’anni da quando Costantino era entrato vittorioso a Roma e mai come
durante il regno di suo figlio Costanzo i rapporti tra
Chiesa di Roma e Impero erano stati così conflittuali. La cattedra di Pietro era stata terribilmente
offesa. Si concludeva così un primo fondamentale
periodo della storia della Chiesa di Roma dopo la
‘svolta’ del 312, quasi cinquant’anni efficacemente
definiti da Charles Pietri come l’epoca dell’«empire
constantinien»139. Con il successore di Liberio,
Damaso (366-384), uomo di «forte e spregiudicata
personalità»140, straordinario protagonista delle
vicende – non prive di gravi contraddizioni – del
tempo141, iniziava infatti un’epoca nuova142. L’episcopato damasiano, il più lungo del IV secolo,
avrebbe infatti avuto conseguenze profonde e durature per la storia della Chiesa di Roma (e non solo),
al punto da dover essere considerato un ventennio
epocale, così come epocale era stato in particolar
modo il trentennio da Vittore a Callisto.
1 La notizia di Gaio è riferita, insieme ad altre informazioni sulla presenza di Pietro e Paolo a Roma, da Eus.,
h.e. II 25,5-7.
2 La bibliografia sulla storia della Chiesa di Roma
di questo periodo è sconfinata. Nel presente saggio si
farà perciò riferimento solo ad alcuni tra gli studi più
significativi o più rappresentativi di determinati indirizzi di ricerca. Per ampi riferimenti bibliografici sul
tema cfr. Enciclopedia dei Papi, I, Istituto della
Enciclopedia Italiana, Roma 2000. A tale volume si è
fatto riferimento nella maggior parte dei casi per la cronologia dei vescovi di Roma. Per altri riferimenti
bibliografici su specifici aspetti cfr. Nuovo Dizionario
Patristico e di Antichità cristiane, a cura di A. Di
Berardino, 3 voll., Genova-Milano 2006-2008.
3 herm., vis. II 4,3.
4 La pluralità di posizioni teologiche e liturgiche
all’interno della comunità romana in questo periodo era
in larga parte conseguenza delle modalità con cui il
Vangelo si era diffuso sino ad allora nella capitale
dell’Impero. La fede in Gesù quale Messia promesso a
Israele era stata annunziata a Roma non molto tempo
dopo la morte del Nazareno, forse già agli inizi degli anni
Quaranta del I secolo. Ignoti sono i nomi dei primi missionari (l’apostolo Paolo giunse nella capitale solo dopo il
56/57, mentre non è possibile stabilire con precisione la
data dell’arrivo di Pietro). Secondo quanto si può ricavare dalle poche notizie a disposizione, l’evangelizzazione si
era inizialmente svolta soprattutto negli ambienti giudaici della capitale (sulla presenza giudaica a Roma nel I
secolo cfr. H. Solin, Juden und Syrer im westlichen Teil
der römischen Welt. Eine ethnisch-demographische Studie
mit besonderer Berücksichtigung der sprachlichen Zustände,
in ANRW II 29,2, pp. 587-789; sulla diffusione del messaggio evangelico a Roma cfr. R. Penna, Le prime comunità cristiane. Persone, tempi, luoghi, forme, credenze,
Roma 2011, pp. 82-104; R. Brändle, E.W. Stegemann,
The Formation of the First ‘Christian Congregations’ in
Rome in the Context of the Jewish Congregations, in
Judaism and Christianity in First-Century Rome, ed. by
K.P. Donfried, P. Richardson, Grand Rapidis (MI)
1998, pp. 117-127; M. Simon, Remarques sur les origines
de la Chrétienté romaine, in Religion et culture dans la cité
italienne de l’Antiquité à nos jours, Actes du Colloque du
Centre interdisciplinaire de recherches sur l’Italie
[Strasbourg 8-10 novembre 1979], Strasbourg 1981, pp.
40-50). Non meraviglia pertanto che a Roma verso la fine
del I e agli inizi del II secolo la comunità cristiana si
caratterizzasse in senso giudaizzante per vari aspetti.
D’altra parte la città di Roma, in quanto capitale
dell’Impero, era soggetta all’epoca a immigrazione da
tutte le regioni del Mediterraneo, in particolare
dall’Oriente e dall’Africa. Tra gli immigrati vi erano
naturalmente anche i cristiani, i quali introducevano ipso
facto nella capitale i propri usi liturgici e vi diffondevano
le proprie posizioni teologiche. Così nel corso del II secolo erano venute a contatto e convivevano all’interno della
Chiesa romana differenti tradizioni dottrinali e liturgiche. Sull’argomento cfr. P. Lampe, From Paul to
Valentinus. Christians at Rome in the First Two Centuries,
Minneapolis 2003 (traduzione aggiornata dell’originale
tedesco del 1987).
5 Su tale terminologia cfr. G. Schöllgen, Monepiskopat und monarchischer Episkopat. Eine Bemerkung zur
Terminologie, in Zeitschrift für die neutestamentliche
Wissenschaft und die Kunde der älteren Kirche, 77
(1986), pp. 146-151.
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LA ChIESA DI ROMA PRIMA E DOPO COSTANTINO
6 Per la storia della comunità romana tra II e III
secolo cfr. M. Simonetti, Roma cristiana tra II e III
secolo, in Ortodossia ed eresia tra I e II secolo, Soveria
Mannelli 1994, pp. 291-314; A. Brent, Hippolytus and
the Roman Church in the Third Century. Communities in
Tension Before the Emergence of a Monarch-Bishop,
Leiden 1995.
7 Di questa posizione sono in particolare Peter
Lampe e Manlio Simonetti (cfr. gli studi citati nelle precedenti note). Le fonti letterarie oggi pervenute mostrano d’altra parte che già Aniceto (circa 155-166), Sotero
(ca. 166-175) ed Eleutero (ca. 175-189) avevano ricoperto una certa responsabilità di governo ed esercitato una
leadership nella Chiesa di Roma. Si dispone tuttavia di
troppo poche informazioni per poter definire meglio il
grado di autorità e di responsabilità da loro avuti nei
riguardi della comunità romana. La leadership di questi
tre personaggi può comunque essere plausibilmente
interpretata come una fase di graduale emergenza a
Roma dell’episcopato monarchico che si impose poi
definitivamente solo con Vittore. Si deve inoltre rilevare
che altri storici, in particolare A. Brent, Hippolytus and
the Roman Church, cit., posticipano di alcuni decenni
l’emergenza dell’episcopato monarchico a Roma e la collocano quasi alla metà del III secolo.
8 Cfr hier., vir. ill. 34; 53.
9 Cfr. C. Mohrmann, Les origines de la latinité
Chrétienne à Rome, in Vigiliae Christianae, 3,2 (1949),
pp. 67-106; Suite 3,3 (1949) pp. 163-183; E.
Prinzivalli, Traiettorie del plurilinguismo fra i cristiani di Roma dei primi secoli, in Vie quotidienne et pluralité des langues. Plurilinguisme dans les chrétientés du Bas
Empire, Actes du Colloque du groupe Suisse d’études
patristiques (Fribourg 23 février 2008), éd. par G.
Aragione, E. Norelli, F. Nuvolone, pp. 1-32, in
corso di stampa.
10 Il processo che condusse alla piena latinizzazione della comunità romana si svolse su vari livelli e fu
nel suo complesso assai lungo. Per la prassi liturgica il
passaggio si concluse solo nella seconda metà del IV
secolo con papa Damaso: cfr. T. Klauser, Der Übergang der römischen Kirche von der griechischen zur
lateinischen Liturgiesprache, in Miscellanea Giovanni
Mercati, I, Bibbia. Letteratura cristiana antica, Città
del Vaticano 1946, pp. 467-482. Per ciò che concerne
la produzione letteraria, l’uso del latino tra i cristiani
di Roma affiancò quello del greco già tra fine II e
prima metà del III secolo. Nell’ambito delle iscrizioni
funerarie, invece, la lingua adottata nei nuclei cimiteriali più antichi (inizi III secolo) è nella maggioranza
dei casi già quella latina, con un rapporto del 70% circa
rispetto al restante 30% in greco; l’uso del latino cresce
poi ancora significativamente per tutto il secolo nella
documentazione epigrafica a svantaggio del greco. Cfr.
C. Carletti, “Epigrafia cristiana”, “epigrafia dei cristani”: alle origini della terza età dell’epigrafia, in La
terza età dell’epigrafia, a cura di A. Donati, Faenza
1988, pp. 115-135; A.E. Felle, Manifestazioni di
bilinguismo nelle iscrizioni cristiane di Roma, in Atti
dell’XI Congresso internazionale di epigrafia greca e
latina (Roma 18-24 settembre 1997), Roma 1999, pp.
669-676.
11 Sull’argomento cfr. R. Cantalamessa, La
Pasqua nella Chiesa antica, Torino 1878.
12 Sulla leadership di Aniceto sulla Chiesa romana
in quel periodo cfr. supra nota 7.
13 Di ciò informa Ireneo in una lettera a Vittore:
cfr. Eus., h.e. V 24,16.
14 Sul tema dei primi sinodi nelle fonti antiche cfr.
D. Dainese, Συνέϱχομαι - συγϰρότησις - σύνοδος. Tre
diversi usi della denominazione, in Cristianesimo nella
storia, 32 (2011), pp. 873-943.
15 Cfr. Eus., h.e. V 23,1-4.
16 Cfr. Eus., h.e. V 24,9.
17 Così sembra potersi ricavare mettendo insieme le
notizie di Eus., h.e. V 15 e V 20,1 con Ps.Tert., haer. 8,1.
18 La documentazione fondamentale a riguardo si
trova in Eus., h.e. V 23-25.
19 Nella Refutatio omnium haeresium, uno scritto
antieretico di cui si dirà più avanti, i quartodecimani
vengono comunque annoverati tra gli eretici: cfr. Ref.
VIII 18.
20 La condanna pronunciata da Vittore non pose
naturalmente fine alla controversia sulla data di celebrazione della Pasqua. La questione fu discussa mutatis mutandis ancora altre volte, in particolare nel 325 a
Nicea, dove si riaffermò la celebrazione domenicale in
accordo con Roma.
21 Sull’argomento cfr. M. Simonetti, Studi sulla
cristologia del II e III secolo, Roma 1993 (in particolare
lo studio Il problema dell’unità di Dio a Roma da
Clemente a Dionigi, ivi, pp. 183-215). Sulla presenza e
l’insegnamento di Marcione e di vari dottori gnostici a
Roma cfr. gli studi sopra citati di Lampe e Simonetti.
22 Cfr. a riguardo il recente contributo di A.
D’Anna, Giustino, philosophus et martyr, in L’ellenizzazione del cristianesimo dal I al II secolo, Atti del
XIII Convegno di studi neotestamentari (Ariccia 1012 settembre 2009), a cura di G. Bellia, D. Garribba,
Bologna 2011, pp. 145-159.
23 Sull’argomento trattato in queste pagine cfr. M.
Simonetti, Il problema dell’unità di Dio, cit.
24 Sulle fonti relative alla dottrina di Teodoto cfr.
W.A. Löhr, Theodotus der Lederarbeiter und Theodotus
der Bankier – ein Beitrag zur römischen Theologie des
zweiten und dritten Jahrhunderts, in Zeitschrift für die
Neutestamentliche Wissenschaft und die Kunde der älteren Kirche, 87 (1996), pp. 101-125.
25 Cypr., epist. 73,4.
26 hipp., Nöet. 1-3.
27 Secondo una notizia di Tertulliano, adv. Prax.
1,3-5, sarebbe invece stato Prassea, sulla cui identità
peraltro si discute, a introdurre per primo tale dottrina
a Roma.
28 Nella I Clem. (fine I secolo) viene rilevata solo
l’azione soteriologica del Cristo incarnato; nel Pastore
di Erma (metà II secolo) si parla del Figlio di Dio
anche in riferimento alla sua preesistenza alla creazione
del mondo e alla sua funzione cosmologica; d’altra
parte la cristologia di quest’opera è aperta a vari influssi. Per un’analisi approfondita di questi testi cfr. M.
Simonetti, Studi sulla cristologia, cit., pp. 184-189.
29 Fonte primaria di questi fatti è il frammento del
cosiddetto Anonimo antiartemonita citato da Eus., h.e.
V 28,1-19.
30 Cfr. Eus., h.e. V 3,4. Sulla condanna dei montanisti da parte di un vescovo romano probabilmente
verso la fine del II secolo cfr. Tert., adv. Prax. 1,5.
31 Sulla trasmissione dell’opera e la questione dell’identità del suo autore cfr. E. Castelli, L’Elenchos
ovvero una ‘biblioteca’ contro le eresie, in ‘Ippolito’,
Confutazione di tutte le eresie, a cura di A. Magris,
Brescia 2012, pp. 21-56.
32 In Ref. IX 11,3 (ed. P. Wendland, GCS 26) si
legge γενητὸν καὶ παθητόν, da correggere in γεννητὸν
καὶ παθητόν. Per l’interpretazione di questa prima
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EMANUELE CASTELLI
affermazione di Zefirino cfr. F. Loofs, Theophilus
von Antiochien Adversus Marcionem und die anderen
theologischen Quellen bei Irenaeus, Leipzig 1930, pp.
169-172.
33 Questa seconda dichiarazione dottrinale contenuta in Ref. IX 11,3 è stata variamente interpretata. A partire da J. Döllinger, Hippolytus und Kallistus: oder die
Römische Kirche in der ersten Hälfte des dritten
Jahrhunderts, Regensburg 1853, pp. 222-223, molti studiosi l’hanno in realtà attribuita a Callisto, del quale si
parla subito dopo nel testo di Ref. IX 11. Altri studiosi
invece, tra cui A. von Harnack (Dogmengeschichte, I,
Tubingen 19094, p. 744; harnack concorda invece con la
posizione di Döllinger in Die älteste uns im Wortlaut
bekannte dogmatische Erklärung eines römischen Bischofs,
Berlin 1923, pp. 51-52) e M. Simonetti (Studi sulla cristologia, cit., p. 197), attribuiscono tale dichiarazione a
Zefirino. In effetti la sintassi del brano pone problemi
circa l’attribuzione di questa seconda dichiarazione dottrinale, perché l’autore, dopo aver ricordato il comportamento di Zefirino, torna quasi ex abrupto in Ref. IX
11,3, l. 4, a parlare di Callisto. Ma sembra – anche alla
luce di quello che si legge prima in Ref. IX 11,1, ll. 1718 – che anche la seconda dichiarazione dottrinale contenuta in Ref. IX 11,3 sia da attribuire a Zefirino: altrimenti la notizia fornita nel capitolo 11 del IX libro su
questo personaggio, considerato come responsabile di
στάσεις tra i fedeli della Chiesa di Roma evidentemente a
causa delle sue contraddittorie dichiarazioni, perde completamente di senso.
34 Sull’episcopato di Callisto e le controversie dottrinali del suo tempo cfr. Ref. IX 11-12.
35 Ref. IX 12,15-16.
36 Cfr. M. Simonetti, Studi sulla cristologia, cit.,
pp. 183-215; E. Prinzivalli, Callisto, in Enciclopedia
dei Papi, cit., pp. 237-246, in partic. 241.
37 Cfr. Ref. X 32-33.
38 Ref. IX 12,25.
39 Dettagliato racconto in Ref. IX 12.
40 Cfr. Ref. IX 12-13.
41 Cfr. Ref. IX 13.
42 M. Simonetti, L’età antica (I-IV secolo), in
Enciclopedia dei Papi, cit., pp. 5-46, in partic. 15.
43 Sulle più antiche aree cimiteriali cristiane di
Roma cfr. V. Fiocchi Nicolai, F. Bisconti, D.
Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma. Origini,
sviluppo, apparati decorativi, documentazione epigrafica,
Regensburg 1998 (di quest’opera sono apparse nel
1999 anche le traduzioni inglese e tedesca); H.
Brandenburg, Überlegungen zu Ursprung und
Entstehung der Katakomben Roms, in Vivarium.
Festschrift Theodor Klauser zum 90. Geburtstag,
Münster-Westfalen 1984, pp. 11-49. Alla luce della
documentazione archeologica, epigrafica e letteraria
non risultano convincenti i dubbi sollevati da É.
Rebillard, L’Église de Rome et le développement des
catacombes. À propos de l’origine des cimetières chrétiens,
in Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité tardive, 109 (1997), pp. 741-763, a proposito del carattere
collettivo delle prime aree cimiteriali di Roma, che
costituisce invece un fatto innegabile.
44 C. Carletti, “Epigrafia cristiana”, cit., pp. 115135.
45 C. Carletti, L’arca di Noè: ovvero la chiesa di
Callisto e l’uniformità della “morte scritta”, in Antiquité
tardive, 9 (2001), pp. 97-102.
46 Cfr. A. von Harnack, Julius Africanus, der
Bibliothekar der kaiserlichen Bibliothek im Pantheon, in
Aufsätze Fritz Milkau gewidmet, hrsg. von G. Leyh,
Leipzig 1921, pp. 142-146. Sulla figura di Giulio
Africano si veda ora U. Roberto, Le Chronographiae
di Sesto Giulio Africano. Storiografia, politica e cristianesimo nell’età dei Severi, Soveria Mannelli 2011.
47 Sull’età dei Severi cfr. E. dal Covolo, I Severi
e il cristianesimo: ricerche sull’ambiente storico-istituzionale, Roma 1989.
48 Eus., h.e. VI 28.
49 Cfr. E. Prinzivalli, Ponziano, in Enciclopedia
dei Papi, cit., pp. 261-263.
50 Eus., h.e. VI 34.
51 Per questo passo della lettera, cfr. Eus., h.e. VI
43,11.
52 Un’importante analisi di questa fonte offre A.
von Harnack, Die Mission und Ausbreitung des
Christentums in den ersten drei Jahrhunderten, Leipzig
19244, pp. 860-866.
53 Cfr. ivi, p. 862.
54 Per alcuni riferimenti bibliografici cfr. G.
Lüdemann, Zur Geschichte des ältesten Christentums in
Rom. I. Valentin und Marcion. II. Ptolemäus und Justin,
in Zeitschrift für Neutestamentliche Wissenschaft und die
Kunde der älteren Kirche, 70 (1979), p. 102 nota 44.
55 V. Fiocchi Nicolai, Katakombe (Hypogeum),
in RAC, XX, c. 380.
56 Per la creazione e lo sviluppo delle aree cimiteriali di questo periodo e del IV-V secolo cfr. V.
Fiocchi Nicolai, Gli spazi delle sepolture cristiane tra
il III e il V secolo: genesi e dinamica di una scelta insediativa, in La comunità cristiana di Roma. La sua vita e
la sua cultura dalle origini all’Alto Medioevo, a cura di
L. Pani Ermini, P. Siniscalco, Città del Vaticano
2006, pp. 341-369.
57 Ibidem.
58 Come sopra detto, erano stati condannati a Roma
verso la fine del II secolo anche i montanisti.
59 Il testo dell’editto non ci è giunto, ma se ne ricava il contenuto da una quarantina di libelli pervenuti
oltre che da una serie di fonti.
60 Su tali eventi informa in particolar modo l’epistolario del vescovo di Cartagine Cipriano, il quale si
ritirò in un luogo segreto durante la persecuzione, ma
scrisse più volte ai suoi fedeli per incoraggiarli e inoltre
ricevette o scrisse a sua volta varie lettere al clero di
Roma.
61 Cfr. la lettera scritta da Novaziano a nome dei
presbiteri e dei diaconi di Roma a Cipriano: epist.
30,3,2.
62 Si veda nell’epistolario di Cipriano l’epist. 8,3,1.
63 Sullo scisma provocato da Novaziano cfr. H.J.
Vogt, Coetus sanctorum. Der Kirchenbegriff des
Novatian und die Geschichte seiner Sonderkirche, Bonn
1968 (si tratta di uno studio particolarmente importante, anche se l’interpretazione delle fonti – specialmente
per quel che riguarda Eus., h.e. VI 43,16 – non appare
sempre convincente).
64 Sulla produzione letteraria di Novaziano e in
generale sulla sua attività intellettuale cfr. M.
Simonetti, Novaziano, in Enciclopedia dei Papi, cit.,
pp. 273-278.
65 Si tratta delle lettere 30, 31 e 36 dell’epistolario.
66 Cypr., epist. 30,5,4.
67 Cypr., epist. 30,8.
68 Cypr., epist. 30,2,2.
69 Cfr. H.J. Vogt, Coetus sanctorum, cit., p. 23.
70 Questa notizia è riferita da Eus., h.e. VI 43,2.
71 Cfr. Eus., h.e. VI 43,7-15.
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5,1-2.
Cypr., epist. 30,7,2.
Cypr., epist. 55,25.
Cfr. Eus., h.e. VI 46,3.
Il passo della lettera è riportato da Eus., h.e. VII
76 Cfr. H.J. Vogt, Coetus sanctorum, cit., pp. 183266; M. Wallraff, Geschichte des Novatianismus seit
dem vierten Jahrhundert im Osten, in Zeitschrift für
antikes Christentum, 1 (1997), pp. 251-279. Wallraff (p.
257) evidenzia come i novazianei riuscissero nel IV
secolo a far sentire il loro influsso alla corte imperiale,
al punto da sfuggire ai provvedimenti contro gli eretici
e a mantenere a lungo una posizione privilegiata.
77 Cfr. M. Wallraff, Geschichte, cit., pp. 257-258; I
canoni dei concili della Chiesa antica, a cura di A. Di
Berardino, I, I concili greci, a cura di C. Noce, C.
Dell’Osso, D. Ceccarelli Morolli, Roma 2006, p. 34.
78 Sull’identificazione di Novaziano con il martire
dello stesso nome menzionato in ICUR VII 20334 cfr.
A. Rocco, La tomba del martire Novaziano, in Vetera
Christianorum, 45 (2008), pp. 161-163.
79 Si osservi che già agli inizi del II secolo Ignazio si
rivolge alla Chiesa di Roma elogiandola nel praescriptum
come mai è dato di constatare nelle altre sue lettere. Per
una dettagliata analisi della lettera ignaziana cfr. A.
Brent, Ignatius of Antioch and the Second Sophistic. A
Study of an Early Christian Transformation of Pagan
Culture, Tübingen 2006, pp. 43-47.
80 Cfr. A. von Harnack, Die Mission und
Ausbreitung, cit., p. 202. Si noti tuttavia che harnack
valorizza tali motivazioni in un ordine diverso rispetto
a quanto qui si propone.
81 Iren., haer. III 3,2: in questo passo peraltro si
definisce la Chiesa di Roma come «maxima, antiquissima et omnibus cognita».
82 Cfr. a tal riguardo quanto osserva A. von
Harnack, Die Mission und Ausbreitung, cit., p. 202.
83 Cfr. Cypr., epist. 67.
84 Cfr. Eus., h.e. VII 2.
85 Cfr. Eus., h.e. VII 3; 5,4. Di altre notizie ricavabili dall’epistolario di Cipriano si dirà a breve.
86 Cfr. Eus., h.e. VII 5,4-5.
87 Cfr. Cypr., epist. 75,17.
88 Valeriano era allora Augusto insieme a suo figlio
Gallieno.
89 Per le decisioni prese al concilio di Arles del 313
sul problema cfr. infra.
90 Le lettere sono citate ad hoc da Eus., h.e. VII 4
segg.
91 Cfr. Cypr, epist. 72,3,1.
92 Phot., cod. 182.
93 Cfr. Eus., h.e. VII 11,4,10; Cypr., epist. 80.
94 Cfr. Ath., Dion.; Ath., decr. 26.
95 Cfr. Ath., Dion. 13,1.
96 Ath., decr. 26.
97 Ath., decr. 26,2.
98 Ath., decr. 26,7.
99 Questa notizia è riferita da Bas., Spir. 29.
100 Su ciò cfr. M. Simonetti, Il problema dell’unità di Dio, cit., pp. 212-215.
101 Su questo personaggio cfr. P. de Navascués,
Pablo de Samosata y sus adversarios. Estudio históricoteológico del cristianismo antioqueno en el siglo III,
Roma 2004.
102 Cfr. Eus., h.e. VII 29-30.
103 Cfr. Eus., h.e. VII 30,1-18.
104 Cfr. Eus., h.e. VII 30,19.
105 ICUR VII 19183.
106 Sulla fondazione di nuove aree cimiteriali cristiane in questo periodo cfr. V. Fiocchi Nicolai, Gli
spazi delle sepolture cristiane tra il III e il V secolo, cit.,
pp. 349-354.
107 J. Guyon, Le cimetière aux deux lauriers.
Recherches sur les catacombes romaines, Città del
Vaticano 1987, p. 101.
108 V. Fiocchi Nicolai, Origine e sviluppo delle
catacombe romane, in V. Fiocchi Nicolai, F. Bisconti,
D. Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma, cit., pp.
25-27 e 30-31.
109 Eus., h.e. VII 32,1.
110 Per una dettagliata analisi del problema cfr. A.
Di Berardino, Marcello, in Enciclopedia dei Papi, cit.,
pp. 307-312.
111 Cfr. infra, nel testo.
112 Cfr. Epigrammata Damasiana, rec. A. Ferrua,
Città del Vaticano 1942, p. 181, n. 40.
113 Ivi, p. 131, n. 18. L’interpretazione dell’iscrizione è problematica: per alcuni studiosi Eraclio sarebbe stato un rigorista che negava la possibilità del perdono dei lapsi; a questa conclusione inclina K. Baus in
Handbuch der Kirchengeschichte, hrsg. von H. Jedin, I,
Von der Urgemeinde zur frühchristlichen Großkirche,
Freiburg-Basel-Wien 19652, p. 387. Altri studiosi, tra
cui A. Ferrua (Epigrammata Damasiana, cit., p. 132) e
A. Di Berardino (in Enciclopedia dei Papi, cit., pp.
314-315), ritengono piuttosto che Eraclio fosse lassista
e richiedesse l’ammisione sine paenitentia dei caduti. È
quest’ultima a mio avviso l’interpretazione esatta dell’iscrizione.
114 Eus., h.e. VIII 14,1.
115 Sull’allontanamento di Marcello da parte di
Massenzio cfr. E. Schwartz, Der Aufstieg Konstantins
zur Alleinherrschaft, in Konstantin der Grosse, hrsg.
von H. Kraft, Darmstadt 1974, pp. 124-125 (lo studio
di Schwartz era apparso in Nachrichten von der königl.
Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen. Philologisch-historische Klasse aus dem Jahre 1904, heft 5,
pp. 518-547).
116 Per la storia della Chiesa romana da questo
periodo fino alla metà del V secolo è fondamentale Ch.
Pietri, Roma Christiana. Recherches sur l’Église de
Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de
Miltiade à Sixte III (311-447), I, Roma 1976; Id.,
Appendice prosopographique à la Roma Christiana
(311-440), in Mélanges de l’École Française de Rome.
Antiquité, 89 (1977), pp. 372-415.
117 Per le informazioni sugli edifici di culto di età
costantiniana si segue qui V. Fiocchi Nicolai,
Strutture funerarie ed edifici di culto paleocristiani di
Roma dal IV al VI secolo, Città del Vaticano 2001, pp.
49-92. Per le notizie del Liber Pontificalis relative agli
edifici ecclesiastici, cfr. H. Geertmann, hic fecit basilicam. Studi sul Liber Pontificalis e gli edifici ecclesiastici di Roma da Silvestro a Silverio, a cura di S. de
Blaauw, Leuven 2004; per il testo del Liber Pontificalis
cfr. Le Liber Pontificalis, I-II, éd. par L. Duchesne,
Paris 1886-1892; III, éd. par C. Vogel, Paris 1957.
118 Cfr. P. Liverani, G. Spinola, Le necropoli vaticane: la città dei morti di Roma, Milano-Città del Vaticano
2010, pp. 41-139; T.D. Barnes, Early Christian Hagiography and Roman History, Tübingen 2010, pp. 1-41;
397-413; P. De Santis, Sanctorum Monumenta. ‘Aree
sacre’ del suburbio di Roma nella documentazione epigrafica
(IV-VII secolo), Bari 2010, pp. 9-17.
119 ICUR II 4092. Sui contenuti dell’iscrizione cfr.
la bibliografia citata nella nota seguente.
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EMANUELE CASTELLI
120 Cfr. Ch. Pietri, Roma Christiana, cit., I, pp. 5152; C. Carletti, L’epigrafia di apparato negli edifici di
culto da Costantino a Gregorio Magno, in La comunità cristiana di Roma: la sua vita e la sua cultura dalle origini al
Medio Evo, a cura di L. Pani Ermini, P. Siniscalco,
Città del Vaticano 2000, pp. 440-441; Id., Epigrafia dei
cristiani in Occidente dal III al VII secolo. Ideologia e
prassi, Bari 2008, pp. 247-248. J.M. Lassère, Manuel
d’épigraphie romain, I, Paris 2005, pp. 532-533.
121 Cfr. R. Krautheimer, Roma. Profilo di una
città, Roma 1981.
122 Cfr. V. Fiocchi Nicolai, Strutture funerarie,
cit., pp. 59-118.
123 Le fonti principali per la fase iniziale della controversia donatista sono raccolte in Urkunden zur
Entstehungsgeschichte des Donatismus, hrsg. von H. von
Soden, Bonn 1913.
124 Eus., h.e. X 5,22. Cfr. D. Dainese, Concili e
sinodi, in questa stessa opera.
125 Ciò si ricava dalla lettera di Marino di Arles a
Silvestro, con la quale questi veniva informato sulle decisioni prese dal sinodo: cfr. Urkunden zur Entstehungsgeschichte, cit., p. 20 nota 16; C. Munier, Concilia
Galliae (Corpus Christianorum 148), Turnhout 1963,
pp. 4-5.
126 La scelta di non presentarsi a questo e ad altri
concili imperiali può essere spiegata alla luce di varie
considerazioni. È certo comunque che in questo modo
il vescovo di Roma si riservava la possibilità di prendere posizione più liberamente sui deliberata del concilio.
127 Come si ricava dalle sottoscrizioni dei partecipanti al sinodo, si tratta dei presbiteri Claudio (o
Claudiano) e Vito e dei diaconi Eugenio e Ciriaco: cfr.
C. Munier, Concilia Galliae, cit., pp. 14-22.
128 Per le decisioni prese al concilio cfr. C.
Munier, Concilia Galliae, cit., pp. 4-13.
129 Il testo della lettera è offerto da Urkunden zur
Entstehungsgeschichte, cit., pp. 20-22.
130 Cfr. A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita e
mito di Costantino, Roma-Bari 2002, p. 100.
131 Ch. Pietri, Roma Christiana, cit., p. 168.
132 Lo studio fondamentale sulla controversia ariana nel IV secolo è di M. Simonetti, La crisi ariana nel
IV secolo, Roma 1975.
133 Questa lettera, tramandata da Ath., apol. sec.
21-35, e le notizie di Soz., h.e. III 8 costituiscono le
fonti principali per tutta questa vicenda. Cfr. M.
Simonetti, La crisi ariana, cit., pp. 146-153.
134 Ath., apol. sec. 35,4.
135 Ath., apol. sec. 35,4-5. Giulio dunque supportava i diritti della Chiesa di Roma e l’autorità della propria posizione con un richiamo, sia pur assai generico,
all’autorità degli apostoli Pietro e Paolo.
136 Per l’analisi delle decisioni allora prese cfr. Ch.
Pietri, Roma Christiana, cit., pp. 220-231.
137 Cfr. M. Simonetti, Il problema dell’unità di
Dio, cit., p. 213.
138 Per ulteriori informazioni circa l’episcopato di
Liberio cfr. M. Simonetti, Liberio, in Enciclopedia dei
Papi, cit., pp. 340-347.
139 Cfr. Ch. Pietri, Roma Christiana, cit., p. XII.
140 E. Di Santo, L’Apologetica dell’Ambrosiaster.
Cristiani, pagani e giudei nella Roma tardoantica (Studia
Ephemeridis Augustinianum 112), Roma 2008, p. 50.
141 Su Damaso cfr. C. Carletti, Damaso, in
Enciclopedia dei Papi, cit., pp. 349-372; E. Di Santo,
L’Apologetica dell’Ambrosiaster, cit., pp. 21-107.
142 Ch. Pietri, Roma Christiana, cit., p. XII.
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