Il sistema delle nuove discriminazioni razziali
Politiche europee dell'immigrazione e pregiudizi sui migranti
FEDERICO OLIVERI*
1. Oltre il senso comune: le discriminazioni razziali come norma
I discorsi e le pratiche in tema di discriminazione risentono di una specifica matrice culturale, quella
giuridica liberal-democratica, articolata intorno a presupposti come la neutralità della legge e della
giustizia, l’universalismo dei diritti, la legittimazione delle norme attraverso procedure, un tipo di
individualismo astratto dai bisogni e dai reali rapporti di potere cui le persone sono sottoposte nelle
istituzioni, nei mercati capitalistici, negli spazi e nelle interazioni quotidiane. Partendo da simili
presupposti, le discriminazioni in genere e quelle razziali in particolare, appaiono delle deprecabili e
quasi inspiegabili eccezioni alla regola, di cui i singoli possono essere risarciti in sede giudiziaria.
La maggior parte degli operatori del diritto, ma anche dei sinceri democratici che difendono i diritti
dei migranti e delle minoranze, rifiuterebbe l’idea che «il razzismo sia parte della struttura delle
nostre istituzioni giuridiche»1, che «il razzismo sia la norma e non un’aberrazione»2, o che il diritto
antidiscriminatorio sia, nel migliore dei casi, limitato rispetto all’effettiva profondità del problema.
Si rimuove così la possibilità che esista nelle nostre società un sistema – legale, materiale e
ideologico – delle discriminazioni razziali.
Per chiarire la questione si può partire dall’uso del linguaggio. Con astrazione crescente, noi
parliamo di discriminazione i) per denunciare di aver subito ingiustamente un trattamento
sfavorevole, ii) per lamentare di essere stati trattati meno bene di un’altra persona in tutto o in parte
assimilabile a noi, iii) per criticare il fatto che due persone o due gruppi non siano trattati con
eguale rispetto e considerazione, oppure iv) per denunciare che un singolo o un’organizzazione
hanno atteggiamenti o comportamenti pregiudizievoli verso di noi o verso altre persone, a causa
della nostra o della loro appartenenza a un certo gruppo; v) per sollecitare le autorità pubbliche a
modificare una norma o a sanzionare un comportamento contrari al principio di equità.
Ciascuna di queste accezioni è parziale. L’ipotesi di un sistema delle discriminazioni razziali va
invece oltre il singolo trattamento iniquo, il semplice atteggiamento o comportamento da cui
dedurre un intento discriminatorio, oltre la capacità di sanzione e riparazione propria del diritto
antidiscriminatorio classico. Emerge solo così la trama degli interessi sociali diffusi che concorrono
a mantenere certi gruppi della popolazione, «razzializzati» in base all’origine nazionale, allo status
giuridico, alle professioni, alla cultura, alla religione, alla lingua, ai tratti somatici, ecc. in una
condizione di inferiorità e marginalità persistenti. Da qui diventa possibile pensare e mettere in atto
interventi radicali contro il razzismo.
2. Oltre il singolo trattamento iniquo: la componente razziale delle diseguaglianze sociali
L’identità di discriminazione e trattamento iniquo avviene anche a livello istituzionale. L’ultimo
rapporto dell’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali in materia di discriminazioni
*
Professore a contratto del corso di Governance e cittadinanza attiva presso il Centro Interdipartimentale di Scienze per
la Pace, Università degli Studi di Pisa; dal 2003 è consulente del Consiglio d'Europa di Strasburgo, presso la Direzione
Generale della Coesione Sociale. Una versione breve di questo articolo è comparsa su “Guerre&Pace”, n. 154 («Italia
razzista»), giugno-luglio 2009, pp. 8-10.
razziali spiega che a ciascun intervistato è stata chiarita la nozione di discriminazione «attraverso
l’esempio di qualcuno che viene trattato meno favorevolmente di altri a causa di alcuni sui tratti
specifici, come l’origine etnica»3. Questa focalizzazione, episodica e individuale, deforma il vissuto
delle discriminazioni razziali, percepite come un continuum di atti o di omissioni in diversi settori
interconnessi dell’esistenza, come un clima o un sentimento generale di oppressione, come una
frontiera invisibile alla propria mobilità umana e sociale. Lo stesso rapporto rileva un dato
interessante: il 40% degli intervistati non ha denunciato l’ultimo caso di discriminazione subito
perché «capita continuamente».
Anche questo è un effetto della rimozione della discriminazione come rapporto sociale, ovvero
come diseguaglianza. Non si tratta di sminuire la gravità di azioni più o meno violente perpetrate a
danno di migranti e minoranze etniche, ma di capire che tali episodi si inquadrano nelle condizioni
di vita profondamente diseguali in cui versano in Europa le popolazioni d’origine straniera4.
Occorre pertanto riportare all’attenzione il nesso circolare tra discriminazioni e diseguaglianze.
Quanto più le persone sono percepite come parte di un gruppo socialmente inferiore, tanto più
discriminarle diventa facile. Quanto più certi gruppi sono svantaggiati de facto ma anche de jure,
tanto più la loro condizione sociale non migliora o si aggrava.
3. Oltre l’intenzione discriminatoria: buona (e falsa) coscienza dei cittadini europei
L’esigenza di considerare le discriminazioni razziali come sistema deriva anche dalla scarsa
coscienza che gli Europei sembrano avere della loro propensione a escludere i migranti. Da diverse
inchieste emerge una forte discrepanza tra la percezione che gli europei hanno di loro stessi come
contrari alla discriminazione razziale5, e la loro effettiva disponibilità ad accordare pari diritti agli
immigrati6. E questo in linea con la forma oggi prevalente di un «razzismo senza razze» 7, postbiologico, non dichiarato né esplicitamente propugnato, accompagnato da argomenti ragionevoli e
legalistici, nutrito di «dati di fatto» e dotte teorie sulle diversità culturali, dissimulato in
atteggiamenti rispettabili e persino simpatetici.
La buona coscienza dei cittadini europei, in quanto membri di società fondate sui diritti umani e
sulla tolleranza, costituisce un potente freno alla loro capacità di autocritica: in caso contrario,
dovrebbero pensare l’impensabile ossia l’esistenza di un «razzismo democratico» 8, da cui
deriverebbe la necessità di un forte cambiamento nella maniera di parlare, vivere, produrre,
organizzare l’intera società. Ma oggi a un simile esito sembrano interessate solo minoranze ristrette,
contro la «dittatura delle maggioranze soddisfatte»9, mobilitate contro i «nuovi arrivati» per
mantenere i rapporti di forza e i criteri attuali di distribuzione del benessere e del potere.
Ciò che la buona coscienza non vede è esattamente ciò che la falsa coscienza s’immagina. I
migranti sono nemici, ma «nemici utili»10: a governare, a confondere le ragioni del conflitto sociale,
ad alimentare il business securitario e a mantenere la coesione nazionale. Sulla criminalizzazione e
sull’esclusione dello straniero, e sulla sua messa al lavoro al più basso prezzo e nei settori meno
attraenti, si crea una «convergenza di interessi»11 tra settori privilegiati e svantaggiati della società,
base materiale della simbiosi tra il «razzismo dei colti» 12 e quello presunto delle classi popolari.
4. Oltre il diritto antidiscriminatorio: le frontiere del principio di non discriminazione
Siamo abituati a considerare il principio di non discriminazione alla base dell’edificio giuridico
moderno e il diritto antidiscriminatorio come una delle principali risorse contro il razzismo 13. Non
c’è quasi costituzione o trattato internazionale che non proclami il godimento dei diritti
fondamentali senza distinzioni di razza, lingua, condizioni personali e sociali, ecc. Senza questo
presupposto crollerebbe la fiducia stessa nel diritto come strumento di «integrazione in una società
di individui liberi ed eguali»14, e come garanzia formale di pari opportunità d’accesso ai mercati
capitalistici. Ma, come tutti i principi giuridici, anche questo conosce limitazioni e bilanciamenti.
In primo luogo, non tutte le distinzioni di trattamento costituiscono discriminazioni: per essere
tali vanno identificate come «distinzioni illegittime», ossia «prive di giustificazione oggettiva e
ragionevole»15. La norma o il comportamento sospetti possono risultare leciti se si prova che sono
necessari, rispetto a un fine politicamente legittimo, e proporzionati, quanto al rapporto tra il fine e
i mezzi16. Così almeno nella dottrina della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale gli
stati godono di consistenti «margini di apprezzamento» 17 nel valutare se situazioni analoghe
consentono un trattamento diverso, in nome di un interesse pubblico come la sicurezza o lo sviluppo
economico, e se i mezzi scelti sono idonei. Tali margini sono appena più stretti se i motivi della
discriminazione sono la nazionalità e l’appartenenza etnica 18.
A queste limitazioni, trasferibili mutatis mutandis dai rapporti tra individui e Stati a quelli tra
privati, se ne aggiungono almeno altre tre, particolarmente pesanti nel caso delle questioni razziali:
esse incorporano un elemento di radicale diseguaglianza nel sistema egualitario del diritto, ponendo
altrettante frontiere al principio di non discriminazione.
La prima frontiera è la distinzione tra status personae e status civitatis, e segna un discrimine
convenzionale tra diritti attribuiti ai soli membri della Nazione, tradizionalmente i diritti politici e
quelli di libera circolazione e accesso al territorio, e i diritti attribuiti a tutti, dunque anche agli
stranieri, tradizionalmente i diritti civili e i diritti sociali principali come l’istruzione e la salute 19.
Così anche a livello internazionale, la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di
discriminazione razziale (1969) non si applica «alle distinzioni, esclusioni, restrizioni o preferenze
operate dagli Stati membri tra nazionali (citizens) e non nazionali», né può essere invocata per
«incidere in alcun modo sulle norme giuridiche degli Stati membri in materia di nazionalità,
cittadinanza o naturalizzazione, salvo che queste norme non discriminino qualche nazionalità in
particolare». Su una linea analoga, la direttiva europea 2000/78/CE sulla parità di trattamento in
materia di occupazione afferma che «il divieto di discriminazione (…) non comprende le differenze
di trattamento basate sulla nazionalità».
La seconda frontiera riguarda i criteri di accesso e soggiorno dei migranti, stabiliti dallo Stato
nazionale nel controllo dei propri confini20. Emblematica la direttiva europea 2000/43/CE sulla
parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica, che «non pregiudica le
disposizioni e le condizioni relative all'ingresso e alla residenza di cittadini di paesi terzi e di apolidi
nel territorio degli Stati membri, né qualsiasi trattamento derivante dalla condizione giuridica dei
cittadini dei paesi terzi o degli apolidi interessati».
La terza frontiera riguarda il trattamento differenziato riservato ai migranti in base allo status
giuridico. Si consolida sempre di più in Europa una «stratificazione civica» 21 per cui, in deroga alla
distinzione classica tra diritti della persona e diritti dei nazionali, il godimento di un diritto è legato
ai motivi e alle modalità con cui si è entrati nello Stato, al fatto di esercitarvi un’attività retribuita e
di possedere un reddito minimo, nonché al tempo che si è trascorso nel paese. Con riferimento
all’Italia, il Testo Unico sull’Immigrazione, all’articolo in cui tratta di discriminazioni razziali,
distingue di fatto due livelli di tutela per i diritti socio-economici, riservando quello superiore allo
«straniero regolarmente soggiornante in Italia». L’accesso ai diritti per i migranti senza documenti è
ridotto ai livelli minimi, quando non è del tutto revocato o reso comunque impossibile nella prassi.
Il cosiddetto «Pacchetto sicurezza» contiene svariate norme del genere 22.
D’altra parte «la possibilità di subordinare, non irragionevolmente, l’erogazione di determinate
prestazioni – non inerenti a rimediare gravi situazioni di urgenza – alla circostanza che il titolo di
legittimazione dello straniero al soggiorno nel territorio dello Stato ne dimostri il carattere non
episodico e non di breve durata» è stata indicata dalla stessa Corte Costituzionale. Rispetto a questa
dottrina, ad esempio, il TAR del Veneto ha potuto ravvisare una discriminazione indiretta
nell’ordinanza 2008/399 del Comune di Venezia che vietava «il trasporto senza giustificato motivo
di mercanzia in grandi sacchi di plastica e borsoni nel centro storico», in quanto la norma aveva
effetti svantaggiosi non sull’insieme dei venditori d’origine straniera, ma sui ricorrenti che sono
«stranieri regolari in possesso di apposita autorizzazione rilasciata dal Comune per l’esercizio
dell’attività di commercio in forma itinerante»23. Come dire che, se i venditori fossero stati
«abusivi» e senza permesso di soggiorno, l’ordinanza non sarebbe stata discriminatoria.
Da queste disposizioni si sprigiona un enorme potenziale discriminatorio, non solo istituzionale
ma anche quotidiano. Il diritto ha qui una funzione eminentemente simbolica, costruisce una
comunità e invia un messaggio che autorizza trattamenti diseguali a catena: «come la parità nei
diritti genera il senso dell’uguaglianza basata sul rispetto dell’altro come uguale, così la
diseguaglianza nei diritti genera l’immagine dell’altro come diseguale, ossia inferiore
antropologicamente proprio perché inferiore giuridicamente» 24.
5. Il sistema delle discriminazioni razziali: tra diritto, modello di sviluppo e ideologia
Il sistema delle discriminazioni razziali non funzionerebbe se al fattore giuridico-politico non si
collegasse anche un fattore materiale, costituito dal modello di sviluppo, e un fattore ideologico,
costituito dagli stereotipi su migranti e minoranze. Questi discorsi mirano a giustificare la posizione
sociale inferiore dei gruppi e a deresponsabilizzarci: non siamo noi ad essere razzisti, ma sono loro
a non rispettare le nostre leggi, ad approfittare della nostra ospitalità e dei nostri servizi, a
minacciare la nostra identità e il nostro modo di vivere, a non essere istruiti, ecc.
Così, ad esempio, il pregiudizio del migrante criminale viene interiorizzato e avvalorato dalle
norme Schengen che consentono il rifiuto del visto a chi costituisce «una minaccia per l’ordine e la
sicurezza pubblica o per la sicurezza nazionale», dispongono la rilevazione delle impronte digitali
all’ingresso, sanzionano con la reclusione o con l’espulsione le violazioni del diritto migratorio.
Analogamente, il pregiudizio del migrante non integrato o non integrabile perché portatore di
culture arretrate, violente, fondamentaliste è fatto proprio e rafforzato da quelle norme che limitano
le libertà di culto e di associazione, pongono le culture e le religioni su piani diversi, non tengono
conto delle diversità degli stili di vita nell’organizzare i servizi pubblici o il lavoro in azienda 25.
Questo complesso legale-ideologico costituisce il contraltare di uno Stato sociale sempre più
deprivato di risorse e consente alle élites politiche e imprenditoriali la quadratura del cerchio: tra la
volontà di rassicurare le classi esposte alla crisi sociale, escludendo quanto più possibile i migranti,
e la necessità di conciliare questa discriminazione26 con il mantenimento formale della democrazia.
Il messaggio di fondo è che non si può essere solidali con chi minaccia le nostre vite, i nostri beni, i
nostri valori. Ciò costruisce anche un potente dispositivo di pressione sui migranti che, in assenza
di adeguati canali d’ingresso legale nel paese, devono sottoporsi a periodi più o meno lunghi di
irregolarità prima di essere ammessi, accettando di lavorare nelle economie sommerse e nei
segmenti più pericolosi, precari e meno remunerati del mercato del lavoro. Inoltre si «etnicizzano» i
conflitti sociali: il controllo etnico-religioso dei migranti rende accettabili pessime condizioni di vita
e di lavoro, e può fungere da controllo per quelli che non subiscono più il ricatto dell’espulsione.
Gli stereotipi del migrante minaccia si sostengono così con quelli del migrante risorsa
economica: anche nel discorso politico è comune distinguere tra i migranti onesti «che vengono per
lavorare» e quelli che «vengono per delinquere» o per «islamizzare il nostro paese». L’idea, solo
apparentemente progressista, che «gli immigrati fanno i lavori che noi non vogliamo più fare»
induce la rappresentazione degradata di lavoratori che non sanno o non saprebbero fare altro. Con
ciò si rimuovono le discriminazioni vissute nella sovra-qualificazione rispetto ai posti occupati, nel
mancato riconoscimento dei titoli di studio o di altre competenze, negli ostacoli alla mobilità
sociale. Lo stereotipo utilitarista coesiste paradossalmente con quello che denuncia la competizione
dei lavoratori migranti sui salari e sulle condizioni di lavoro. In questo caso si tenta di spostare le
effettive responsabilità dell’impoverimento dei lavoratori, avvenuto negli ultimi decenni, e gli
effettivi interessi in gioco: quelli degli imprenditori per i quali competitività è sinonimo di
abbattimento del costo del lavoro e sfruttamento della manodopera, ma anche quelli dei
consumatori impoveriti e manipolati, orientati ai prezzi più bassi e ai beni superflui 27.
Se ne ricava in nuce un vasto programma politico di alternativa: modificare le norme che
veicolano e rinforzano i pregiudizi razziali; confutare il discorso politico etnocentrico che
contrappone sistematicamente i nostri diritti ai loro; criticare l’attuale modello di sviluppo e di
consumo come fonte di ineguaglianze, insoddisfazione e rischi ambientali per le fasce medio-basse
della società. Intorno a queste lotte possono crescere quei movimenti e quelle alleanze trasversali
alle diverse appartenenze, essenziali per abbattere il sistema delle discriminazioni razziali.
1
A. Harris, «Foreword», in R. Delgado, J. Stefancic, Critical Race Theory, New York University Press, New York,
2001, p. XX.
2
R. Delgado, J. Stefancic, Critical Race Theory, cit., p; 7.
3
FRA, EU-MIDIS at a glance. Introduction to the FRA’s EU-wide discrimination survey, European Union Agency for
Fundamental Rights, Vienna, 2009, p. 6.
4
Caritas Europa, Migration. A Journey into Poverty? 3rd Report on Poverty in Europe, Caritas Europa, Bruxelles, 2006.
5
Eurobarometro, Discrimination in Europe, n. 57.0, serie ordinaria, Bruxelles, 2003.
6
EUMC, Majorities’ Attitude Towards Minorities: Key Findings from the Eurobarometer and the European Social
Survey. Summary, European Monitoring Centre on Racism and Xenophobia, Vienna, 2005.
7
E. Balibar, I. Wallerstein, Race, nation, classe. Les identités ambigües, La Découverte, Paris, 1997, p. 33.
8
G. Faso, Lessico del razzismo democratico, DeriveApprodi, Roma, 2008.
9
E. Santoro, La fine della biopolitica e il controllo delle migrazioni: il carcere strumento della dittatura democratica
della classe soddisfatta, in P. Cuttitta, F. Vassallo Paleologo, a cura di, Migrazioni, frontiere, diritti, Esi, Napoli, 2006.
10
L. Wacquant, «“Suitable Enemies”: Foreigners and Immigrants in the Prison of Europe», Punishment & Society, n. 12, 1999.
11
D. A. Bell, «Brown v. Board of Education and the Interest-Convergence Dilemma», Harvard Law Review, 93, n. 518,
1980.
12
G. Campioni, G. Faso, «L’intolleranza dei colti», in E. Pugliese, a cura di; Razzisti e solidali, Ediesse, Roma, 1993, p.
114.
13
IOM, Pour une société plus juste. Le droit international, communautaire et français en matière de discriminations,
International Organization for Migration, Helsinki, 2004, p. 24.
14
J. Habermas, Faktizität und Geltung, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1992 (trad. it.: Fatti e norme, Guerini e Associati,
Milano-Napoli, 1996).
15
D. Lochak, «Réflexions sur la notion de discrimination», Droit social, n. 11, novembre 1987, pp. 778-790.
16
Belgian Linguistics case c. Belgio, del 23 luglio 1968.
17
Rasmussen c. Danimarca, del 28 Novembre 1984.
18
Rispettivamente Gaygusuz c. Austria, del 16 settembre 1996 e Timishev c. Russia, del 13 dicembre 2005.
19
L. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. Zolo, a cura di, La cittadinanza. Appartenenza,
identità, diritti, Laterza, Roma-Bari, 1994.
20
Questa dottrina è stata più volte ribadita anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, fin dal caso Abdulaziz c.
Regno Unito. Unico principio in grado di controbilanciare il diritto degli Stati al controllo migratorio è il divieto
assoluto di tortura e trattamenti degradanti. Su questa base la stessa Corte di Strasburgo ha più volte bloccato le
espulsioni di cittadini non europei verso paesi in cui non avrebbero potuto ricevere cure necessarie alla loro
sopravvivenza (D. c. Regno Unito) o sarebbero state esposti a un serio rischio di tortura o di morte (Chahal c. Regno
Unito).
21
L. Morris, Managing Migration Civic Stratification and Migrants Rights, Routledge, Londra, 2002.
22
Su tali norme e sui loro effetti discriminatori ha espresso «profonda preoccupazione» il Rapporto del Commissario ai
diritti umani del Consiglio d’Europa, reso pubblico il 16 aprile 2009.
23
TAR Veneto, III Sezione, decisione 11 dicembre 2008, n. 1315.
24
L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 26.
25
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza Thlimmenos c. Grecia del 6 aprile 2000, ha chiarito che si
discrimina anche quando non si trattano diversamente persone che si trovano in situazioni significativamente diverse.
26
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza Gayusuz c. Austria del 16 settembre 1996, si è chiaramente
espressa sull’argomento.
27
Cfr. F. Gesualdi, Sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti di tutti, Feltrinelli, Milano, 2005.