Hate Speech

Il linguaggio d'odio ha valenza performativa: non descrive né rispecchia ma crea e alimenta gerarchie sociali ingiuste. Ciò è particolarmente evidente se chi parla lo fa da una posizione di autorità. L'autorità amplifica il potere delle parole di cambiare i limiti di ciò che può essere detto e può essere fatto. Fa delle parole potenti mezzi di costruzione di una nuova normalità, mediante i quali pratiche prima ritenute illegittime vengono a poco a poco rese accettabili, non problematiche, normali. Le lezioni per la Cattedra Rotelli che Rae Langton ha tenuto presso l'Università Vita-Salute San Raffaele indagano le complesse relazioni tra parole, autorità e ingiustizia sociale, a partire da una prospettiva performativa sulla natura del linguaggio. Il volume si apre con un contributo di Langton, che ripercorre i passaggi chiave delle sue lezioni, e prosegue con alcune note critiche, in cui studiose e studiosi del panorama accademico italiano riflettono sulla proposta teorica dell'autrice.

Il tema dei discorsi d'odio costituisce un interessante esercizio costituzionale consistente nell'analisi dei limiti della libertà di espressione, con particolare riguardo a quello relativo rispetto della dignità dell'individuo. Tale bilanciamento porta a interrogarsi su come il diritto nazionale e sovranazionale, in una prospettiva comparata, reagisca a fenomeni di odio e violenza nella dimensione reale e digitale al fine di tutelare l'individuo da forme di discriminazione e comportamenti che potrebbero ledere la sua dignità. In un tale contesto si colloca il Regolamento adottato dall'AGCOM al fine di tutelare la dignità umana contro i discorsi e l'istigazione all'odio, un tassello importante nella strategia nazionale di contrasto all'hate speech che si concentra non solo sui media tradizionali, ma anche sulle piattaforme digitali. 1. Introduzione Tra i pilastri su cui si fonda una società democratica, la possibilità per ciascun individuo di poter esprimere liberamente il proprio pensiero riveste un ruolo predominante. Ciò non soltanto perché il c.d. right to free speech costituisce il presupposto fondante del confronto democratico, ma anche per il suo carattere funzionale all'esercizio di altre libertà e diritti fondamentali. Non si potrebbe al-trimenti definire "democratica" una società connaturata da uno scambio di posizioni inquinato da interventi restrittivi atti a censurare la libera circolazione di idee e opinioni. Sebbene la suddetta premessa porti a riconoscere un ampio livello di tutela della libertà di espressione al fine di garanti-re il fiorire di una società democratica, tuttavia, l'esercizio di tale libertà non può essere considerato del tutto absoluto da qualsiasi forma di limitazione il cui scopo principale è quello di tutelare inte-ressi costituzionali altrettanto meritevoli di tutela. Ed è in questa cornice, tutt'altro che esaustiva, che si pone il dibattito costituzionale sui discorsi d'odio o, più comunemente, hate speech 1. Tra le varie definizioni del fenomeno è possibile richia-mare, nel contesto del Consiglio d'Europa, la Raccomandazione n. 15 della Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza (ECRI) relativa alla lotta contro le espressioni d'odio che defini-sce tali comportamenti come "l'istigazione, la promozione o l'incitamento alla denigrazione, all'odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sot-toporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o

Abstract:
This chapter examines if the increased political discussions on social media especially Twitter and Face Book before and after the March 4th, 2013 general elections in Kenya translated to a more robust Alternative Public Sphere that broke the hegemony of the traditional media as Agenda setters or an alternative space for the audience to vent out their frustrations and grievances about the election. In the last most contentious elections in 2007, in Kenya, both new and old media were blamed for fueling ethnic hate speech which culminated into the 2007/ 2008 post election violence. It is argued in this chapter that although voting patterns in the March 2013 elections were clearly along ethnic lines just like in 2007, there was no physical post election violence like was the case in 2008. What was clearly evident was Ethnic hate speech before and after the general elections on social media networks. We therefore observe that unlike in 2008 where ethnic violence was fought in the streets, in the 2013 general elections, the ‘Ethnic War was Networked’. The chapter analyses the content of some of the messages send on Twitter and Face Book to argue that social media platforms only acted as alternative spaces for Kenyans to fight out their ethnic political wars and not alternative public spheres for constructive political deliberation. The chapter concludes by observing that social media networks in the 2013 general elections in Kenya acted as ‘Opiums of the Masses’ only serving the function of keeping Kenya ‘quiet and peaceful’ to prevent a repeat of the 2008 post election violence, but not alternative public spheres to facilitate constructive political deliberation.

Resumen:
En este artículo se analiza si el aumento de las discusiones políticas sobre las redes sociales, especialmente Twitter y Facebook, antes y después de las elecciones generales en Kenia del 04 de marzo de 2013, se tradujeron en una esfera pública alternativa sólida que rompiera con la hegemonía de los medios de comunicación tradicionales en tanto que fijadores de la agenda, o un espacio alternativo para la audiencia en el que tratar sus frustraciones y quejas sobre las elecciones. En las últimas elecciones más polémicas en Kenia, en 2007, tanto los nuevos medios como los tradicionales fueron acusados de alimentar la incitación al odio étnico, que culminó en la violencia sufrida a finales de 2007 y principios de 2008, después de las elecciones. El argumento de este texto señala que aunque los patrones de voto en las elecciones de marzo 2013 se delinearon claramente siguiendo un patrón étnico al igual que en 2007, no hubo violencia física postelectoral, como ocurrió en 2008. La incitación al odio étnico era ya evidente antes y después de las elecciones generales en las redes sociales. Por lo tanto, observamos que, a diferencia de 2008 donde la violencia étnica se libró en las calles, en las elecciones generales de 2013, esta violencia se canalizó a través de la red. El artículo utiliza el análisis de contenido cualitativo de algunos de los mensajes enviados a través de Twitter y Facebook para sostener que estas plataformas sólo sirvieron para los kenianos como espacios alternativos en los que escenificar su confrontación política étnica, y no como esferas públicas alternativas para la deliberación política constructiva. Por lo tanto, se concluye señalando que las redes sociales en las elecciones generales de 2013 en Kenia actuaron como “el opio del pueblo”, que sólo sirvió para mantener Kenia tranquila y pacífica, con el fin de evitar que se repitiera la violencia post-electoral de 2008, pero no como esfera pública alternativa que facilitara la deliberación política constructiva.