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Pearl Jam, i problemi alla voce di Eddie Vedder non fermano lo show. E a Manchester la band emoziona il pubblico

Pearl Jam, i problemi alla voce di Eddie Vedder non fermano lo show. E a Manchester la band emoziona il pubblico

Seconda data del tour europeo della band di Seattle che ha da poco pubblicato il nuovo album “Dark Matter”

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MANCHESTER – Avvicinandosi al via del tour europeo dei Pearl Jam, la paura o forse proprio la sensazione che, alla fine, si fossero pure loro fin troppo imborghesiti c’era. I prezzi fuori controllo per chi un tempo faceva le crociate contro i mulini a vento chiamati Ticketmaster e ora da quella brezza si lascia sospingere adeguandosi pure al perverso meccanismo del dynamic pricing che ha stavolta portato solo a svendere seggiolini in saldo last minute per riempire posti. Il maxischermo con scenografie e visual che sono una prima volta assoluta per una band che dal vivo aveva sempre contato solo sulla musica. Gli show fiume da tre o quattro ore di un tempo che ormai sono un ricordo. E anche un pubblico che magari a sua volta s’è imborghesito, o semplicemente invecchiato mentre i prezzi avevano tagliato fuori la porzione più dura e pura, e inizia osservando lo spettacolo cellulare in mano più che partecipando. Poi succede che Eddie Vedder dopo le prime canzoni comincia ad accusare problemi alla voce, prima non lo dice ma si intuisce, poi lo ammette, si scusa e tira avanti, e tutto cambia.

L’atmosfera si scalda, il pubblico forse per inconsciamente supportare un cantante da sempre percepito come un amico nel momento di difficoltà si scorda di tutto il resto, di litigi e delusioni come quelli che tra amici capitano, inizia a partecipare davvero al concerto e tutto si fa più reale, sincero. E lo spettacolo decolla, perché in fondo questo è tutto ciò di cui ha bisogno il rock, un po’ di realtà. I Pearl Jam ne hanno distribuita tanta durante gli anni e per fortuna pur sotto una veste che si è riscoperta più patinata ne hanno ancora tanta da dispensare.

(afp)

Così il secondo show di un mini tour europeo a supporto del nuovo disco Dark Matter che dall’Italia stavolta non passerà, alla Co-op Live Arena di Manchester ha bisogno di rodaggio come la nuovissima struttura inaugurata un mese fa tra mille travagli e diventata il più grande spazio per concerti al chiuso in Europa. A proposito, suono in platea eccellente, ma si registrano lamentele da chi stava su in alto nei ripidi spalti a tre piani. Ma quando i Pearl Jam si mettono a fare i Pearl Jam, il concerto decolla. Non è dato sapere se la scaletta sia stata cambiata o tagliata in corsa per i problemi di voce di Vedder, che sabato dovrà replicare a Londra, ma in due ore precise la band condensa tanto contenuto.

Rispetto alla prima data europea di Dublino di tre giorni prima, che assomigliava a un greatest hits, si va a scavare più nel profondo di una discografia che l’ultimo disco ha arricchito con un lavoro di inediti forse per la prima volta da 18 anni davvero ispirato. L’apertura con Of the girl, poi All night, I got shit, la cover di Fuckin up di Neil Young, sono tutte variazioni sul tema che soprattutto in Europa raramente vengono concesse da una band che imborghesita o meno conserva questa bella e quasi unica usanza di cambiare scaletta ogni sera, rendendo ogni concerto un’esperienza a sé. Esserci qui ed ora, l’essenza del rock, appunto, senza farsi distrarre da orpelli che forse c’entrano poco con questa band. I led coi visual saranno anche belli e oggettivamente non particolarmente invasivi quanto spesso capita in concerti in cui ti trovi a fissare uno schermo (quello dietro al palco o quello del cellulare davanti a te) e non sai cosa hai ascoltato, ma pensare solo alla musica è meglio.

Un’arena costruita senza praticamente barriere tra palco e platea, alla inglese come gli stadi della Uk, aiuta l’esperienza letteralmente immersiva, e man mano che lo show prosegue si ricrea quel connubio umano, morale, identitario, tra il gruppo e il suo pubblico che si scambiano il sudore. Il resto della band è forse più timida del solito, concentrata solo sulla come consueto impeccabile esecuzione dei brani, Eddie Vedder si scioglie mentre la sua voce perde colpi e nella sua vulnerabilità il suo popolo si compatta e l’esperienza ne guadagna, mente il cantante si diverte a entrar in contatto fisico con la sua gente più che a enunciare discorsi politici. In uno dei pochi, ringrazia il fatto che qui non si deve andare a un concerto col timore che qualcuno abbia in tasca un’arma. Problemi da nuovo continente, qui nel vecchio, anche a casa di chi ha scelto di lasciarlo, ne abbiamo altri.

Per tutte le ragioni di cui sopra, c’era forse stato il timore quella connessione intima tra la band e il suo pubblico si fosse persa, la si recupera affondando le anime in due ore di grande rock, che proprio come le canzoni dei Pearl Jam non necessita di tanti altri aggettivi e giri di parole per esser definito. Ecco, magari fa male pensare che si tratta, ormai, di classic rock: la carta di identità non mente, e di certo ai bar della Co-op Live Arena poche volte i cassieri hanno dovuto chiedere la carta di identità a qualcuno che sembrasse under 25, come da leggi britanniche. Ma comunque, come racconta una Manchester nel pomeriggio divisa tra mari di magliette bianche della nazionale inglese che giocava in contemporanea e t-shirt delle varie epoche dei Pearl Jam, tra concerti a tema nei locali e tra gli artisti di strada, con tanta voglia di passare un po’ di tempo assieme tra sconosciuti che si riconoscono in una comunità che periodicamente si dà appuntamento per il proprio pellegrinaggio in direzione Pearl Jam. E rivendicare di essere still alive, come da immancabile pezzo che nonostante i costanti stravolgimenti di scaletta da 33 anni manda il segnale che lo show sta andando verso la conclusione. A questa età serve qualche certezza a cui appigliarsi.

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