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Quando i romani sapevano
pensare la guerra permanente

risponde Aldo Cazzullo

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Caro Aldo,
sulla fine dell’impero romano sono d’accordo con lei, è rimasto nella nostra anima. Però ci sono state diverse cause che lo hanno modificato, la sua vastità, i costi per mantenere la struttura, pensiamo solo alle strade. Quando Annibale sconfisse i Romani nelle battaglie del Trasimeno e a Canne, subirono perdite per oltre 100.000 soldati ma furono in grado di ripristinare un esercito e a Zama sconfissero definitivamente Cartagine. Durante le invasioni barbariche, nel V secolo d.C., ebbero grosse difficoltà nell’approntare gli eserciti. Per non parlare delle crisi economiche, dei vari generali che si facevano la guerra per il potere, potere ormai nelle mani di imperatori fantoccio, forse l’ultimo di un certo livello fu Maggioriano. Poi solo Oriente, fino al 1453. Ma questa eredità dell’impero romano che fa parte del nostro modo di essere e di pensare, è comune agli altri imperi che l’hanno preceduto e succeduto?
Marco Nagni

Caro Marco,
L’impero romano non è mai caduto perché ogni impero della storia si è presentato come l’erede dell’impero romano, e ogni imperatore si è creduto il nuovo Cesare. Non solo l’impero romano d’Oriente durò fino al 1453, ma Maometto II il conquistatore si incoronò Kaiser-i-Rum, Cesare dei Romani; come a dire che non era un usurpatore, ma il fondatore di una nuova dinastia di imperatori; mentre lo Zar russo — altra parola che deriva da Cesare — sposava la nipote dell’ultimo imperatore bizantino e proclamava Mosca la Terza Roma. Roma, quella vera, va pensata non come una città, ma come una civiltà. Non solo Repubblica, anche Senato, imperatore, dittatore, popolo, libertà, giustizia, responsabilità, legge, cittadino si dicono allo stesso modo anche in inglese. Pure socialismo, comunismo, nazionalismo, presidente sono parole di origine latina. Così come i nomi dei mesi, dei giorni (tranne il sabato), dei segni zodiacali sono i nomi che ai mesi, ai giorni, ai segni diedero gli antichi romani. E i caratteri latini si usano pure in Turchia e in Vietnam. Ma l’aspetto forse più interessante è che i romani dovettero affrontare le due grandi questioni del nostro tempo: i flussi migratori e la guerra permanente (qualcuno ne aggiunge una terza, il cambio climatico). L’immigrazione si risolveva con l’integrazione: si poteva diventare romani, indipendentemente dal colore della pelle, dal posto da cui si veniva, dal dio che si pregava; ovviamente, bisogna parlare latino, o greco, ed essere fedeli allo Stato. E i romani potevano perdere una battaglia — ne persero molte, da Canne a Carre —, ma alla fine vincevano la guerra, perché sapevano pensarla. Il legionario non era un eroe; era un soldato. Il suo fine non era una morte gloriosa, ma una pensione tranquilla, grazie all’oro e alle terre sottratte al nemico. I generali non erano quelli della prima guerra mondiale, «tutti all’assalto», «vincere o morire»; erano strateghi, organizzatori, ingegneri. E il perno della strategia era trasformare i nemici vinti in alleati. Proprio come gli americani hanno fatto con noi, i tedeschi, i giapponesi dopo la seconda guerra mondiale; e come ora non riescono più a fare. Certo non sono riusciti a farlo con l’Iran, che sta dietro a Hamas, a Hezbollah, agli Houthi, e dietro di sé ha la Russia e la Cina.

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L'ingiustizia

«Mio figlio disabile, sia gratuito ciò che gli è dovuto»

Ho un bimbo di 10 anni affetto da tetra paresi da paralisi cerebrale infantile. La mia è la storia di tanti come me. Qualche giorno fa vengo contattato dal tecnico di fiducia dell’istituto medico che segue mio figlio e mi annuncia che l’ausilio posturale necessario in corso di prescrizione, quello che dovrebbe impedire l’atrofia dei tendini e l’inesorabile contrazione progressiva dei muscoli nonché salvaguardare la stabilizzazione delle anche, prevede una spesa extra a carico della famiglia pari a due mesi di stipendio di un lavoratore precario o a tre di un pensionato sociale o cassaintegrato. Tutto ciò perché il famigerato «nomenclatore» non contempla i codici necessari affinché il Servizio sanitario nazionale fornisca gratuitamente questo strumento. Sempre a danno di mio figlio abbiamo dovuto rinunciare all’attività terapeutica in acqua perché la sua disabilità rende necessaria una sedia che l’Asl, questa volta, non concede affatto. La sedia costa due mesi di stipendio di un impiegato di buon livello. E l’associazione a cui «doniamo» circa 10.000 euro annui e che si occupava della terapia in piscina non ha voluto acquistarla nemmeno usata. Ora, la mia, la nostra richiesta ai politici è di mollare un po’ il colpo con il turpiloquio e la zuffa, per puntare sulla riforma e l’aggiornamento di quegli strumenti che, senza costringere genitori e parenti dei disabili a tristi espedienti, restituiscano la dignità e la considerazione a chi ha già un peso sul cuore che solo noi dobbiamo gestire, con cui solo noi conviviamo e che nessun politico potrebbe toglierci anche se fossero realmente al servizio dei cittadini.
papà Marco P.

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